Questa è una settimana diversa da tutte le altre: i nostri vecchi, ai tempi in cui la vita quotidiana era scandita dai rintocchi delle campane, l’avevano chiamata “santa” nel ricordo di giorni lontani in cui il Santo dei Santi, diventato creatura umana, aveva consumato la sua incarnazione inchiodato sul legno di una croce.
Da allora il crocifisso è una presenza che attraversa la storia: quella solenne delle grandi battaglie, delle volte affrescate, dei maestri del pensiero, delle processioni imploranti e la storia “piccola” delle pareti di casa, dei piloni sbrecciati, della prima Comunione, del respiro affannoso in punto di morte.
Tradizioni e abitudini che resistono ancora e non solo nei cuori dei credenti: il crocifisso, che all’apparenza suona scandalo e follia, è rimasto il simbolo più alto del dolore umano, della debolezza violentata, della sofferenza che non ha più speranza, dell’urlo senza risposta.
Come allora, sulla collina del Golgota, i crocifissi sono in mezzo a noi e non hanno più il volto di Dio, ma il volto dell’uomo.
E non c’è risposta ragionevole che possa spiegare perché e dare un senso a ciò che senso non ha. C’è soltanto il racconto di quel crocifisso lontano, che il terzo giorno uscì dal sepolcro e si riprese la vita.
Un piccolo, fragile squarcio di luce per tutti i crocifissi che aspettano il mattino di Pasqua