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Sabato 27 aprile 2024

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La vita piena di Ester Ribero

L’Argentina, il bambolotto per nascondere i messaggi ai partigiani, la sartoria e la Cuneo di oggi

La Guida - La vita piena di Ester Ribero

Ester Ribero ha compiuto 90 anni il 15 gennaio e ha una vitalità e un’energia davvero contagiose. Vive in città, in un alloggio acquistato dai suoi genitori, che lei ha accudito fino alla loro scomparsa (la mamma Caterina Durbano è venuta a mancare a 99 anni, nel 2006, e il papà, Mattia Ribero, molti anni prima, quando non ne aveva ancora compiuti 80); si alza presto per fare le faccende di casa e poi esce, al mattino e al pomeriggio, per portare fuori il cane di un’amica che ha qualche problema di salute, per evitare che la povera bestia debba finire in un canile. Questo l’aiuta a tenersi in forma e le offre la possibilità di dare una mano all’amica, anche nel fare la spesa.
La sua è la storia di una donna emancipata e intraprendente, che

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ha imparato a credere in se stessa fin da giovanissima, anche grazie a sua madre, che ha sempre detto alle figlie (Ester aveva una sorella, Aida, insegnante a Torino, mancata nel 2017) di cercare la loro indipendenza in tempi in cui, soprattutto nei paesi piccoli, le donne erano relegate in casa ad accudire i figli.
Ester è nata in Argentina dove il padre, originario di Pradleves, si era trasferito a 19 anni e dove svolgeva l’attività di muratore; a 45 anni era rientrato in Italia per cercare una moglie che provenisse dalla sua terra d’origine e che fosse disposta a trasferirsi in America; Caterina, di 20 anni più giovane, aveva accettato subito quel bell’uomo alto, rispettoso e gentile, anche perché l’avrebbe portata in America e lei avrebbe potuto andarsene da quel paese dove, come era solita dire: “i padri si vergognavano di portare in giro i loro bambini con il passeggino, perché non era una cosa da uomini”.
Dall’Argentina tornarono nel 1939 perché i nonni volevano conoscere le loro nipotine che non avevano mai visto; ma quel viaggio cambiò completamente il loro destino, perché la nave che li portò in Italia fu l’ultima adibita al trasporto civile ad attraccare a Genova, prima della chiusura a causa dello scoppio della guerra; per loro non fu più possibile rientrare.
Si trovarono senza lavoro, senza casa, in un paese di cui le due figlie non conoscevano neppure la lingua e, per di più, in guerra. Ester, che allora aveva 6 anni e doveva iscriversi alla prima elementare, avendo un nome riconducibile alla tradizione ebrea, dovette cambiarlo e fu chiamata Lucia. La sua maestra era la moglie di un gerarca fascista, aveva dei metodi piuttosto duri e non aveva molto riguardo per le bambine straniere come lei, che non conoscevano l’italiano; così lei si trovò molto male, i compagni la prendevano in giro e un giorno, in un tema in cui doveva parlare di Mussolini, scrisse senza tanti giri di parole, che per lei il duce era “una bella m…”. La maestra la prese per le orecchie e la portò dal direttore; lui le fece la ramanzina di rito, ma si dimostrò molto meno severo di quanto si sarebbe aspettata e, qualche giorno dopo, venne addirittura da sua madre a scusarsi, facendole capire che non era d’accordo con i metodi della maestra.
Per non dover dipendere dai nonni che li avevano ospitati nei primi tempi, mamma Caterina affittò ben presto un negozietto in via Roma a Caraglio, di proprietà della famiglia Vacchetta, dove aprì un laboratorio di sartoria, visto che questo mestiere lo esercitava già in Argentina, nella sua amatissima Buenos Aires. Il locale divenne, da ’43, un punto di riferimento per la Resistenza, perché Caterina aveva un’amica antifascista che, lavorando al servizio telegrafico del paese, veniva a conoscenza delle informazioni indirizzate ai militari, e cercava di fare in modo che arrivassero ai partigiani della Valle Grana, in tempo perché potessero sfuggire ai rastrellamenti. Il collegamento venne tenuto sia dalla mamma (col nome di battaglia di Dolores) sia dal papà, ma anche Ester fece la sua parte. Essendo ancora una bambina, era meno controllata e così poteva passare più facilmente i posti di blocco. I messaggi la mamma glieli cuciva nell’orlo della gonna e lei, che era una bimba molto sveglia, in bici, li portata a destinazione, a Paniale e in altre località vicine. Un altro sistema infallibile per far passare le informazioni era un bambolotto, che Ester conserva ancora oggi, con la testa smontabile: dopo averla sganciata dalla sua posizione, si nascondevano i biglietti nel corpo del giocattolo, e poi si rimetteva tutto a posto. Ester fingeva di voler superare il posto di blocco per andare a giocare con le amichette che si trovavano dall’altra parte e così le informazioni passavano e potevano giungere a destinazione. Nel laboratorio di via Roma, si cucivano anche camicie per i partigiani, ricavate dal tessuto dei paracadute con cui venivano lanciati gli aiuti dagli americani.
Finita la guerra, dopo il ’50, papà Mattia tornò in Argentina per vendere le proprietà che aveva lasciato nel ’39 e con quel denaro acquistò l’alloggio a Cuneo in cui ancora oggi vive Ester.
Ma intanto lei non era rimasta con le mani in mano. Incoraggiata dalla mamma, anziché restare a lavorare nel laboratorio di Caraglio, a 18 anni affittò una stanzetta in centro a Cuneo, e iniziò la sua attività di sarta. I primi tempi si trasferiva ogni giorno da Caraglio in bicicletta; poi si comprò la moto e, a 21 anni, la 500, con cui poteva portare anche due lavoranti che l’aiutavano a cucire, visto che aveva incominciato ad avere una certa clientela. Faceva grembiulini per la scuola, camici e abiti da donna e a un certo punto dovette trasferirsi in un locale più grande, che affittò in via Carlo Emanuele, con uno spazio nel retro dove poter lavorare con le macchine da cucire.
Visto che la sua attività stava andando bene, la mamma, nel 1960, chiuse il negozio di Caraglio e venne a lavorare con lei a Cuneo. Le clienti divennero sempre più numerose e alcune avevano tanta fiducia nel buon gusto di Ester che, quando avevano un matrimonio o un evento particolare, le chiedevano di recarsi a Torino per acquistare, per loro, un tailleur o un abito adatto. Col tempo, acquisì anche la licenza per vendere maglieria e altri capi di abbigliamento già confezionati e ampliò ulteriormente la sua attività.
A 60 anni chiuse, anche perché voleva occuparsi della mamma, che era diventata anziana.
Ester ha avuto una vita piena, ha dovuto lottare per conquistare la sua indipendenza ed è giustamente orgogliosa di quello che è riuscita a costruire.
Non ha mai smesso di essere una donna attiva e indipendente, che amava il lavoro, ma anche andare a ballare e a divertirsi. L’insegnamento della madre, che credeva molto nelle capacità delle donne, il suo incoraggiamento l’hanno sempre guidata: quando voleva fare qualcosa, mamma Caterina non la frenava mai e le diceva semplicemente: “prova!”. E lei ci ha provato, con risultati eccellenti.
Oggi vive pienamente i suoi anni. Le piace tanto fare delle lunghe passeggiate, in particolare in viale Angeli e proprio a questo proposito, negli ultimi tempi, ha una grande preoccupazione: si parla di una possibile riapertura al traffico automobilistico di quest’area, ma per lei il viale deve restare pedonale, per le tante persone che vogliono fare una passeggiata, soprattutto gli anziani, chi è in carrozzina, i bambini, gli sportivi e le famiglie. Ci tiene tanto e chissà che la sindaca, la prima donna a ricoprire questo incarico a Cuneo, non possa ascoltare il suo accorato appello.

Nella foto in alto, Ester Ribero con il bambolotto che usava per i messaggi ai partigiani. Sotto, Ester Ribero con il bambolotto che usava per i messaggi ai partigiani.

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