La “carne” prodotta in laboratorio non può essere definita “carne coltivata”, con riferimento alla matrice naturale da cui è stato fatto il prelievo di cellule staminali, e lo stesso vale per i prodotti che contano di replicare latte, uova e pesce.
Per esempio nel caso di prelievo dal tessuto muscolare di animali, l’uso del termine “carne” appare inappropriato, almeno secondo la legislazione europea, che definisce la carne, nell’allegato I del Regolamento 853/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio, come “muscolo scheletrico di mammiferi e specie aviarie riconosciute idonee al consumo umano, con tessuti naturalmente incorporati o aderenti”.
Questa definizione è lontana dal processo di proliferazione cellulare che si svolge nel bio-reattore.
La definizione più corretta appare, quindi, quella di proteine prodotte in vitro a partire da cellule prelevate da animali. Questo concetto vale per tutti gli altri prodotti generati attraverso l’uso di tecnologie di crescita cellulare. Gli appellativi che i promotori dei cibi artificiali puntano ad affermare, tendono a catturare le caratteristiche, percepite come positive, del prodotto che intendono replicare, acquisendone il nome. Ma anche a rassicurare con aggettivi che qualificano il prodotto come sano ed ecologico.
Utilizzare un’espressione come “carne coltivata e pulita” è un’operazione di marketing finalizzata a mascherare l’innaturalità del prodotto agli occhi del consumatore.
Sul tema sono intervenute la Fao e l’Organizzazione mondiale della sanità che, nel loro primo Rapporto sui cibi sintetici, pubblicato nell’aprile 2023, parlano di “cibo a base cellulare”, definizione considerata più chiara rispetto al termine “coltivato”, ritenuto fuorviante dalle due Autorità mondiali che rilevano peraltro come la parola “sintetico” sia usata, oltre che dai media, anche dal mondo accademico.