Ci sono una copertina, delle perle d’acqua dolce, un ponte e due tesserini a scandire le pagine di questo libro la cui cifra distintiva è la concretezza. Una fisicità che si fa sentire, toccare, traducendo in termini sensibili quella burrasca interiore che dilaga nell’animo dell’autrice quando il 23 aprile 1992 deve abbandonare il suo paese. La guerra nei territori della penisola balcanica è appena scoppiata e già intere famiglie devono lasciare le proprie case. Rimangono solo i maschi tra i 18 e i 60 anni. Così hanno deciso autorità “non definite”.
Nell’odore della copertina con cui ripara dal freddo il suo bambino, ritrova l’odore della casa abbandonata, di una quotidianità rassicurante ormai devastata. Il tintinnio delle perle d’acqua dolce, che la madre volentieri regalava quasi a tessere un filo verso future generazioni, è occasione per una vivace fotografia di famiglia, anch’essa struggente ricordo di giorni sereni. I “piedi” del ponte sono l’ancora di salvezza per la memoria del padre così come un pezzo di carta, che sancisce la condizione di profughi, è il ritratto della nuova condizione. Evapora in questa concretezza ogni illusione, ogni parola di circostanza. Ora per l’autrice l’imperativo è sopravvivere per il suo bimbo.
La guerra mette in dubbio ogni sicurezza. Lei non trova le parole per spiegare a sé e al suo piccolo, anzitutto, la situazione in cui si trovano precipitati. Vestita di “nuda solitudine” vive l’esperienza del campo profughi dove si ritrova a frugare in un mucchio di scarpe per cercarne un paio per vadano bene al figlio, dove un tesserino la qualifica come profuga, “un’altra categoria di esseri umani”.
Sono pagine spesso strazianti, sovrascritte sulla storia europea degli ultimi decenni, in cui l’autrice apre il suo animo distrutto. Eppure c’era chi credeva al futuro, chi aveva partecipato a costruire questo paese ora martoriato: la ferrovia, il ponte tornano a essere tangibili segni di queste illusioni perdute. Con le mani vuote si accorge che l’unica “ricchezza” è quel bimbo per cui è necessario lottare.
Di qui riparte. Non è strada finalmente appianata. È un cammino verso il recupero di una consapevolezza interiore. Ancora ci si muove sul concreto: “cercare di dare un senso al proprio aspetto fisico, ai vestiti, all’igiene personale, ai capelli”. Poi ritrovare la memoria di cosa vuol dire lavorare, imparare, conoscere: dimensioni da comunicare ai bambini del campo perché qualificano la persona, nel restituirle la dignità e il pensiero di un futuro.
4 crepe
Nasiha Sejdic
Primalpe
12 euro