Cuneo – Quello che sarà il futuro del cibo non è una questione da poco: ad essere in ballo è la nostra complessiva visione del domani. Il cibo è fondamentale per la salute pubblica, strategico in termini di giustizia sociale e sviluppo territoriale ed è cruciale per la lotta ai cambiamenti climatici.
L’Europa, oltre a essere il più grande e performante apparato agroalimentare del mondo, è anche il più sostenibile e soprattutto il luogo più sicuro dove consumare cibo. Nonostante questo, il rischio che si sta materializzando nelle strategie delle istituzioni Ue è quello di lanciarsi a passi spediti verso un ulteriore innalzamento dell’asticella. Un percorso che appare in contrasto con gli obiettivi di autosufficienza alimentare dell’Ue e che nel lungo termine potrebbe incrementare il livello di rischiosità nei nostri piatti. Infatti, in assenza di regole commerciali fondate sul principio di reciprocità, la strategia posta in campo dall’Ue è destinata a infrangersi contro l’innalzamento delle importazioni.
Il rischio è quello di penalizzare la produzione europea e al contempo sostenere le importazioni da Paesi con standard ambientali decisamente più bassi, che ricorrono a un utilizzo massiccio di pesticidi vietati in Europa o che negli allevamenti somministrano farine animali, elevate dosi di antibiotici o ancora che ricorrono all’utilizzo di ogm. Senza dimenticare le scarse tutele per i diritti dei lavoratori e per il benessere animale. Se non ci sarà una consapevolezza di tutti il rischio nel piatto sarà servito.
Se le soglie che definiamo sono valide solo in casa nostra, allora si produrrà solo dove si può inquinare e deforestare, e l’Europa, attraverso le sue crescenti importazioni, rischia di essere il motore di una spirale viziosa a livello globale. Questo rischio è paradossalmente amplificato dalle ambizioni dell’Europa di divenire il primo continente neutrale dal punto di vista delle emissioni entro il 2050. Parte di queste ambizioni passano, infatti, per una maggiore responsabilizzazione degli attori del sistema agroalimentare europeo e in particolare degli agricoltori. A essi è richiesto, già entro il 2030, di ridurre sensibilmente l’uso di fertilizzanti chimici, pesticidi e antibiotici negli allevamenti e questo porterà il già sostanziale gap di standard esistente tra Europa e resto del mondo ad ampliarsi ulteriormente. Con conseguenze che, secondo molti analisti, sono destinate innanzitutto a contrarre l’autosufficienza europea e poi nel lungo termine a incrementare il livello di rischiosità nei nostri piatti.
È indispensabile, come Coldiretti chiede da tempo, che la politica commerciale europea faccia passi in avanti nel fissare elementi sostanziali di reciprocità degli impegni all’interno degli accordi commerciali, ad esempio, con la possibilità di estendere anche ai partner commerciali extra-Ue alcuni degli obblighi fissati per i produttori europei in materia di sicurezza sanitaria e ambientale.
Se escludiamo il Regno Unito, i cui standard risentono della lunga appartenenza al mercato unico europeo e Ucraina e Russia, il Brasile guida la classifica dei fornitori dell’Europa, seguito dagli Stati Uniti, dalla Cina, dall’Indonesia, e dall’Argentina. Il valore delle importazioni da questi Paesi copre poco meno del 40% dei flussi di prodotti agroalimentari in ingresso in Europa. In realtà questi bacini di approvvigionamento sono rappresentativi di tre grandi blocchi geografici dai quali dipendono le importazioni europee: nordamericano (Stati Uniti e Canada), dei Paesi sudamericani del Mercosur (Mercado común del Sur), orientale (Cina, Indonesia, India, Malesia e Vietnam). Nei territori di questi tre grandi bacini dell’approvvigionamento alimentare europeo si concentra quasi la totalità delle superfici ogm.
Se guardiamo ai singoli comparti, preoccupante è il caso della carne bovina.
Delle circa 300.000 tonnellate di carne bovina annualmente importate nell’Ue, oltre il 90% arriva dai paesi Mercosur e in particolare da Brasile, Uruguay e Argentina. La restante parte arriva per lo più dal blocco nordamericano (6%). In tutti questi Paesi e, di conseguenza nella quasi totalità delle importazioni europee di carne bovina, i produttori locali possono utilizzare pratiche e sostanze proibite in Europa. In particolare l’uso delle farine animali negli allevamenti, l’uso di antibiotici finalizzati a promuovere la crescita dei capi allevati, minori standard obbligatori per il benessere animale e minori, quando non assenti, limiti al tempo di trasporto degli animali, compongo i principali punti della lista. Al di là delle implicazioni per la salute e l’ambiente, le differenze esistenti tra gli standard comportano un differenziale di costo per la produzione di un chilo di carne bovina pari a circa 2,3 euro. I significativi extra costi a carico degli allevatori europei potrebbero quindi rivelarsi insostenibili nel caso di una maggiore liberalizzazione degli scambi commerciali fatta a regole attuali.