IV domenica di Pasqua
At 13,14.43-52; Sal 99; Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30
Tra i Salmi più conosciuti c’è sicuramente il Salmo 23: «Il Signore è il pastore: non manco di nulla… Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male». Ma come posso sapere che davvero del Signore posso fidarmi, credere che accompagna la mia vita?
Il libro dell’Apocalisse accosta all’immagine del pastore quella dell’Agnello. Gesù Cristo è il buon pastore perché è l’Agnello: è diventato pastore e guida perché ha donato la vita e per questo può essere preso come Signore della vita.
Bella la conclusione della seconda lettura: Dio che asciuga ogni lacrima dagli occhi dell’umanità. E questo lo può fare perché è l’Agnello sgozzato, e quindi sa cosa significa patire, soffrire, morire.
Il Signore è il mio pastore perché è l’Agnello.
Può sorgere ancora una domanda: va bene che il Signore conosca il patire dell’uomo, potendo così asciugare le sue lacrime. Ma un pastore così, non sarà troppo debole, non verrà sbranato da lupi?
La domanda non è priva di fondamento. Già la crocifissione ne è testimonianza storica. La stessa cronaca degli Atti degli apostoli (prima lettura) ci ricorda come sia possibile respingere la voce di Dio. Paolo e Barnaba, infatti, sono osteggiati nel loro annuncio, rifiutati. Il credere al Vangelo non ci immette in una corsia preferenziale, ma ci fa passare attraverso una «grande tribolazione», immergendo le nostre vesti nel «sangue dell’Agnello».
Eppure, nonostante le tribolazioni, continuiamo a dire: «Il Signore è il mio pastore». La celebrazione eucaristica è lì a testimoniare che nonostante tutto la Parola di Dio è più forte del rifiuto dell’uomo.
È comprensibile allora il perché Gesù nel vangelo usa quest’immagine: «Nessuno strapperà le pecore dalla mia mano, io e il Padre siamo una cosa sola».
Nell’icona della tradizione orientale delle Chiese bizantine l’Anastasis (la Discesa agli Inferi di Cristo) il Risorto è rappresentato mentre scende agli inferi tendendo la mano ad Adamo ed Eva che si trovano nella bocca della morte.
La salvezza sta nell’afferrare la mano di Cristo; la vita eterna è un posto fra le mani di Dio, il cui desiderio è che ogni uomo si possa aggrappare alle sue mani per essere salvato.
Quelle di Gesù Cristo e del Padre sono mani che parlano di vita: mani che hanno accolto in un abbraccio quel figlio perduto; che hanno tenuta stretta sulle spalle quella pecora smarrita e ritrovata; che hanno toccato gli occhi, le labbra, le ferite sul corpo dell’uomo sofferente. Sono le stesse mani che hanno spezzato quel pane che contiene la vita. Sono quelle mani che, inchiodate sulla croce, hanno rivelato fino in fondo tutta la preziosità che ogni uomo ha allo sguardo di Dio. Ecco perché queste mani sono sicure: non possono perdere la cosa che hanno di più preziosa, la vita di ogni uomo, ogni donna, dando tutto la vita per essa.
Certamente le mani di Gesù e del Padre non trattengono ciò che non vuole essere trattenuto: nessuno può strapparci dalla potente mano di Gesù, dalla potente mano del Padre. A meno che siamo noi a sceglier di passare in altre mani. La forza di queste mani sta proprio nella loro debolezza: non ci trattengono se non lo vogliamo e nel loro amore ci lasciano liberi. Ma sanno anche cercarci e raccoglierci, perdonarci e riabbracciarci. Il pastore, quello bello, ama così tanto ognuna delle sue pecore che le chiama per nome e se una di esse si allontana, va a cercarla, la chiama con la sua voce piena di compassione e quando la ritrova, la afferra con le sue mani, come chi ha ritrovato il suo tesoro, e se la pone sulle spalle. E poi pieno di gioia, invita tutti a far festa.
Niente e nessuno ci strapperà dalle mani di Dio, così come il Figlio ha creduto che nulla l’avrebbe strappato dalle mani del Padre.
E la Risurrezione è la conferma che la fede di Gesù nelle mani affidabili del Padre era ben posta.
Immagine: Mimmo Paladino, Il buon pastore, Lezionario domenicale e festivo della Chiesa cattolica italiana, Anno C