Ger 33,14-16; Sal 24; 1 Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28,34-36
Immaginiamo della gente che si trova a guardare le macerie della propria casa distrutta per un incendio, un terremoto… Mettersi a ricostruire una casa quando si hanno ancora sotto gli occhi i tizzoni fumiganti della precedente, richiede una forza d’animo non comune, soprattutto se si è già avanti negli anni e non si è sorretti da prospettive future stimolanti. Si perde l’entusiasmo e le difficoltà sembrano insormontabili.
Ciò che la prima lettura ci presenta, può essere paragonato a questa immagine.
Un gruppo di esuli, tornato da Babilonia, trova la città di Gerusalemme in rovina. Volgono attorno lo sguardo e non scorgono che segni di morte e distruzione.
A questa gente sfiduciata il profeta invita a non dubitare delle promesse di Dio, perché il Signore non viene meno nel realizzare ciò per cui si è impegnato: «Ecco verranno giorni nei quali il Signore realizzerà le promesse di bene che ha fatto alla casa di Israele e alla casa di Giuda». E spunterà un germoglio che «eserciterà il giudizio e la giustizia».
Il giudizio e la giustizia di Dio non sono di tipo forense, il suo non è un verdetto di condanna: la giustizia divina sta nel coinvolgere l’uomo nel progetto di salvezza.
Il linguaggio che Gesù usa per invitare l’uomo alla collaborazione perché si realizzi la giustizia di Dio, cioè la salvezza, sembra un po’ duro: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di genti in ansia per i maremoti e le tempeste».
Il linguaggio è quello tipico della letteratura apocalittica che parla di una «tribolazione» che la storia dovrà attraversare.
Anche se il brano evangelico sembra più interessato a sottolineare le reazioni degli uomini davanti a tali eventi che sconvolgono cielo e terra. Si parla infatti di angoscia, di ansia e di una paura grande.
Sono questi gli atteggiamenti di chi non sa vivere l’attesa, di chi fatica a «rimanere» di fronte alle cose che dovranno accadere, di chi manca di speranza nella difficoltà a leggere la storia dell’umanità come «storia di salvezza»; è un segno dell’incapacità a scorgere la presenza silenziosa di Dio che, come rivela al profeta Geremia, «vigilo sulla mia parola per realizzarla» (Ger 1, 12).
Ai suoi discepoli il Maestro dice che, vedendo accadere le stesse cose che segnano il corso della storia personale e dell’umanità, devono «alzare il capo». «Quando queste cose cominceranno ad accadere, drizzatevi e alzate la testa, perché la vostra liberazione è vicina». Gli stessi segni non saranno motivo di sfiducia, ma diventeranno il luogo dove scorgere la liberazione.
«Alzare il capo» per scrutare all’orizzonte della storia la salvezza che si realizza, per credere che il corso dei giorni è «abitato da una presenza».
«Sollevare la testa»: assumere la postura dell’uomo in piedi e in cammino sorretto dalla speranza.
Ma anche per i credenti è un attimo perdere questo «sguardo diverso». Anche il loro cuore può appesantirsi, anche loro possono correre il rischio di venire travolti dagli eventi cupi che segnano la storia dell’umanità; anche loro possono cercare vie di fuga dal reale per rifugiarsi in una visione ingenua della vita e della storia.
Che fare dunque in attesa di quel giorno dove la terra, il cielo e il mare subiranno un rinnovamento, una nuova creazione per diventare la dimora definitiva del Regno?
Vigilare e pregare.
Vigilare è lottare contro l’angoscia, non essere spiazzati dagli eventi che accadono; è stare nella storia senza rassegnarsi al «già visto», vivendo un’attesa operosa perché s’attende Qualcuno.
E pregare significa che questo Qualcuno atteso è già anche «presenza», qui e ora, una presenza che vigila perché le sue promesse si compiano.