Valle Po – Spesso completamente dimenticati da una politica cieca e sorda da più di cinquant’anni, che invece avrebbe avuto modi e mezzi per valorizzarne le peculiarità e “venderla” a un turista sempre più affamato dei sapori di una volta, la Valle Po trasuda di galuperie, per lo più fatte con i cibi poveri di una volta. In quest’ottica non si può che cominciare con i funghi.
Tutti li conoscono come porcini o bolé, benché siano identificati dagli esperti con rigorose denominazioni latine. Belli, carnosi, dal profumo inconfondibile, appagano la vista ben prima di essere apprezzati in tavola e ad ogni buona stagione scatenano un’autentica corsa alla loro ricerca. Ma da queste parti non va né dimenticato né sottovalutato il poliporo frondoso, in dialetto “ürein”, fantastico sott’olio e aceto. Poi c’è la castagna, che resiste a fatica al progressivo abbandono del territorio e le malattie di ultima generazione, autentica regina povera delle valli. Numerose le varietà presenti che, differenziandosi per dimensione, colore e caratteristiche del riccio, assumono denominazioni locali diverse. Fra le molte in uso nelle valli Po, Bronda e Infernotto, vanno ricordate Tampüriva, Ciapastra, Caruna, Cuntëssa, Rusana, Sarvaschina, Paiassa, Bracalla. Si possono trovare sui mercati di Sanfront, Paesana e Barge: raccolte per lo più a mano, ancora disposte nei sacchi di juta, che nel tempo continuano a custodirne l’autentica genuinità. Al terzo posto, per gusti personali, metteremmo l’ajolì – in dialetto “ajè” -, una maionese di uova fresche intrisa da una decisa quantità di aglio frantumato, servita con patata lesse, tomini freschi e cotechini. In molti non ne conoscono quasi più l’esistenza, ma il lunedì della festa patronale di luglio ci pensa la “Trattoria del Giardino” a rinfrescare la memoria a tutti con una cena a base di ajè, i cui posti si esauriscono sin da Pasqua.
Ma le valli Po, Bronda e Infernotto si caratterizzano anche per alcune produzioni frutticole di particolare pregio e gusto. La mela della valle Bronda è prodotta con l’impiego di tecniche di lotta integrata senza residui di trattamenti chimici, ha valori nutrizionali eccellenti ed è reperibile presso le aziende locali nel periodo della raccolta, a partire da ottobre. La mela Renetta Grigia di Torriana prende il nome dalla caratteristica della sua buccia, totalmente rugginosa, e dall’omonima località di Barge dove viene coltivata e da dove ha avuto origine. È considerata la regina delle mele da cuocere in forno. Altre gustose specialità arricchiscono l’offerta della valle, si tratta dei piccoli frutti che, seppur modesti nelle dimensioni, ricoprono le pendici del Monviso di accesi colori che tendono a diffondersi sempre più. Mirtilli, lamponi, fragole, ribes, uva spina costituiscono ormai una nicchia di mercato non indifferente per il territorio. La loro commercializzazione è affidata a cooperative di produttori locali, commercianti oppure ancora alla vendita diretta presso le aziende agricole. Le squisite susine di piccole dimensioni e di antiche origini siriache, sono conosciute sul mercato col nome di ramassin della valle Bronda.
Raccolti ad inizio luglio, sono un frutto unico, dalla polpa morbida e carnosa, dal profumo intenso e dal sapore dolcissimo. I ramassin della valle Bronda sono presidio Slow Food. Sulle colline di Saluzzo (Castellar), Pagno, Brondello, Revello, Martiniana Po ed Envie si coltiva con passione un’uva che dal 1996 ha avuto il riconoscimento della Doc Colline Saluzzesi. Dall’uva di Pelaverga si ottiene un vino con tonalità rosso rubino tenue e delicato, dal profumo fragrante e fruttato con prevalenza dei sentori di ciliegia e lampone, spesso accompagnati da una leggera nota speziata, mai assolutamente fastidiosa, ma molto tipica.
Del prestigio di questo vino fu premonitrice Margherita di Foix, moglie di Ludovico II marchese di Saluzzo, che già nel 1511 mandava in omaggio ogni anno una trentina di botti di vino de Pagno et de Chastella a papa Giulio II perché “el bon vin gli piasia”. Pane, latte, polenta e prodotti della terra sono stati per secoli alla base dell’alimentazione non solo dei Comuni delle valli Po, ma della montagna in generale. E sono questi ancora oggi gli ingredienti base della cucina tradizionale. Si potrebbero citare centinaia di piatti succulenti che alcuni ristoratori attenti continuano a riproporre nei menù delle loro locande. Tra i tanti, non si possono non citare le puppe dë treuva, un piatto dal nome e dal sapore davvero originali… Si tratta di fiori di zucchine ripieni di riso e avanzi di carne che, a Robella di Sanfront per esempio, si preparavano in occasione della festa dedicata alla Madonna della neve, la prima domenica di agosto. E che dire del minestrone di trippa che nessuno serve ormai più. La polenta a Ostana, poi, veniva preparata con patate lesse e farina bianca combinata con farina di grano saraceno: “poulënto dë triffoule bou dë froumëntin”, un piatto antico, semplice nei contenuti ma singolare negli accostamenti che ancora oggi alcune abili massaie preparano nel completo rispetto della tradizione. Nella zona di Barge, infine, le paste di meliga prendono il nome di batiaje perché venivano mangiate durante i battesimi, dal dialetto piemontese: far battezzare = fè batiè. Un dolce tipico della tradizione piemontese, dal sapore unico ed inconfondibile.