Adescava ragazzi minorenni sui social fingendosi anche lui un ragazzo; dal semplice ‘ciao, come va la scuola?’ si passava presto a domande decisamente più invadenti della sfera sessuale e all’invio di materiale pedopornografico con proposte di incontri ‘per fare nuove esperienze’. Dopo il processo e la condanna del tribunale di Ravenna per fatti analoghi, è arrivata anche dalla giudice Emanuela Dufour la condanna di R. T., residente nel bresciano, a un anno e sei mesi per adescamento di minori. Nella rete del pedofilo erano finiti due ragazzini di 15 e 16 anni che si erano iscritti su Facebook millantando un’età maggiore: “Altrimenti non mi sarei potuto iscrivere, ma quando lui iniziò a scrivermi gli dissi subito quanti avevo”, aveva detto alla giudice uno dei due ragazzi, che dopo un breve periodi di conversazioni su Facebook e su Whatsapp con l’uomo, aveva raccontato tutto alla madre la quale poi lo denunciò. “Mi mandava foto di ragazze della mia età e mi chiedeva di fare classifiche. Mi offrì del denaro in cambio di foto o per andare a casa sua. Faceva domande anche sul mio amico e mi chiedeva se ci fosse modo di vedersi e fotografarsi insieme”. Dopo qualche giorno il ragazzino parlò con la madre rivelando i contenuti di quella chat e così la madre per verificare il fatto si finse il figlio e scambiò alcuni messaggi con l’uomo prima di andare a denunciarlo: “All’inizio disse di avere 16 anni poi confessò di averne 43. Diceva che voleva che mio figlio andasse da lui per amicizia; so che mio figlio era intervenuto in questa chat per difendere il suo amico, un ragazzo fragile, da questa persona; alla fine di quella conversazione gli dissi chi ero in realtà e credo anche di averlo offeso, lui continuava a dire che era un amico. Poi telefonai alla madre dell’altro ragazzo e andai a denunciare”. In seguito all’avvio dell’indagine la Polizia Postale di Brescia eseguì delle perquisizioni a casa dell’uomo che era già una vecchia conoscenza degli agenti: “Fra il 2015 e il 2017 facemmo tre perquisizioni a casa sua per adescamento o detenzione di materiale pedopornografico; quella dell’agosto 2017 era la terza perquisizione. In quella precedente di aprile, per sottrarsi ai controlli aveva gettato il pc e gli hard disk dalla finestra. Ad agosto ci fingemmo postini che dovevano consegnare un pacco. Sequestrammo modem e telefoni; non sapevamo più cosa portargli via dato che continuava a procacciarsi immagini pedopornografiche. Quella volta ne trovammo altre tre”. Di elementi oggettivi nella sua requisitoria il pubblico ministero Alessia Rosati ne ha portati molti, tutti quelli emersi dalle testimonianze dirette dei due ragazzi e della madre che aveva sporto denuncia; dai contenuti delle chat (uno dei due ragazzi aveva salvato il contatto dell’uomo nominandolo ‘pedofilo’) e dal materiale sequestrato all’uomo. “L’elemento soggettivo può desumersi dalla condotta dell’uomo nel momento in cui continuò a inviare messaggi al ragazzo dopo aver parlato con la madre di quello perché temeva di essere denunciato, è chiaro il suo intento manipolatorio nei confronti dei due ragazzi che invitava a conversazioni dal contenuto sessuale esplicito”. La difesa dal canto suo si è appellata al fatto che il reato contestato poteva essere considerato in continuazione con quello già giudicato dal tribunale di Ravenna; una tesi contrastata dall’accusa che ha ricordato come i fatti oggetto del precedente processo risalissero al 2016 mentre quelli contestati ora erano di una anno dopo. La giudice ha accolto la richiesta dell’accusa condannando l’uomo a un anno e sei mesi con la pena accessoria dell’interdizione da uffici scolastici o incarichi presso luoghi frequentanti da ragazzi.