La definizione di emigrazione come “condizione esistenziale” fa un po’ venire i brividi. Viene proposta con lucidità da don Luigi Ciotti nell’introduzione al volume. Sono parole che mettono in crisi tutte quelle certezze che dovrebbero essere ormai acquisite per definire umana un’esistenza. La consegna invece alla fragilità, all’indeterminatezza, persino all’evanescenza di fantasmi. Una condizione succintamente espressa anche dal titolo del libro: sospensione come un perdere gli agganci necessari al proprio mondo “in bilico fra un prima e un poi, un qui e un altrove, fra ricordi e progetti”.
Vero che il concetto stesso di esistenza presuppone un evolversi continuo, un’instabilità positiva che prende il nome di crescita, di maturazione. La condizione del migrante è però il contrario stesso di questo concetto. Vanifica l’identità personale in un abisso di privazioni e umiliazioni che ne minano la stessa “consistenza” di persone. Sono fantasmi in quanto sradicati dalla propria cultura, dal proprio passato.
D’altro lato è ancora don Ciotti a sottolineare come i confini degli stati non siano nulla di eterno “ma limiti tracciati dalla stratificazione di vicende storiche e volontà umane”. E da questo punto di vista la migrazione veramente è fenomeno strettamente connesso all’umana condizione di abitante del pianeta, non già suo indiscusso proprietario né di tutto né di una sua parte.
L’approccio al tema viene articolato in tre distinti filoni. Anzitutto c’è uno sguardo al passato recente, a quando i flussi migratori coinvolgevano popolazioni europee, perché “abitare la memoria” è utile per comprendere i presente. Si parte dal caso poco conosciuto dei rimpatri dopo la fine della seconda guerra mondiale per raggiungere le migrazioni più vicine nel tempo dai Balcani e dalla Siria. Le guerre spesso sono state conseguenza di precisi progetti di revisionismo storico di cui la pulizia etnica è soltanto la manifestazione drammaticamente umana.
Un’altra linea di approccio considera le risposte che i paesi europei mettono in atto. Spesso sono carenti, quando non disumane tanto che, altra prospettiva, si registrano “buone pratiche” gestite per lo più a livello privato e autofinanziate finalizzate non solo a far fronte all’immediatezza degli arrivi, ma anche a predisporre piani per l’inserimento che tengano conto sia dei bisogni dei migranti sia della percezione che di loro ha il contesto sociale e culturale.
A tutti i livelli comunque appare chiara l’importanza della comunicazione e la necessità di un prioritario chiarimento lessicale. Dietro le parole usate ci sono esistenze, non soltanto fenomeni, né tanto meno informazioni. La “narrazione dell’immigrazione” ha una responsabilità nel determinare atteggiamenti e risposte alla questione. Rappresentare i migranti come gruppi, non come individui, consegna alla paura, alla retorica della difesa culturale e, senza andar lontani, alla chiusura fino al pregiudizio.
Vite sospese
a cura di Enrico Miletto, Stefano Tallia
Editrice: Franco Angeli
36 euro