La motivazione che mi spinse qualche anno fa a ricostruire il discorso che Duccio Galimberti tenne il 26 luglio del ’43 era di conferire il giusto valore alle parole, al contenuto del discorso, audace in certi punti, più pacato in altri, aldilà della retorica o dell’enfasi o della commozione che sempre si annidano all’approssimarsi della data.
Non avevo molto, non una traccia esaustiva, solo qualche appunto negli archivi di casa Galimberti e i ricordi di spezzoni, questi sì preziosi, di alcuni personaggi come Ettore Rosa, capitano degli Alpini e futuro comandante nella liberazione della città e in particolare il prof. Ruata, docente di lettere ritratto a fianco di Duccio nella foto del 26 luglio, che ci ha lasciato tre frammenti che amplia in tempi diversi. Valeva la pena di cimentarsi e tentare di ricomporre un testo che sarà un momento ineludibile della storia, anche perché Duccio, che proveniva da una tradizione familiare di avvocati, lui stesso penalista, accompagnava, secondo la tradizione dell’oratoria classica, i suoi discorsi con una partecipazione prossemica che rendeva il suo eloquio empatico. Il suo era stato un discorso a braccio che, con rigore e lucidità politica, faceva leva sull’indignazione, sullo sdegno per la situazione dell’Italia e sulla condanna netta del fascismo e degli errori della monarchia.
Mi sono avvalso della lezione di Tucidide, si licet parva componere magnis, il quale, per poter scrivere un’opera duratura “per sempre” in un’epoca di prevalente comunicazione orale, vista l’impossibilità di ricordare puntualmente i discorsi ascoltati di persona o di verificare quelli riferiti da altri, non gli rimase che ricorrere al criterio di argomentare ciò che era logico che il personaggio di volta in volta dicesse in quelle date circostanze.
La versione data da Ettore Rosa, da cui sarà tratta l’epigrafe apposta vicino all’ingresso della casa museo recita: «Sì, la guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana, ma non si accorda a una oligarchia che cerca, buttando a mare Mussolini, di salvare se stessa a spese degli italiani», contiene almeno tre elementi politici: la lotta contro i tedeschi, già percepiti come invasori, e non come (ex) alleati, il carattere popolare di uno scontro inevitabile, la rottura piena e recisa con il passato fascista, senza le titubanze e i compromessi della monarchia. Ruata ci ha lasciato tre testimonianze dell’orazione. Nella prima e nella seconda, il comizio si incentra sulla “dichiarazione di guerra” ai tedeschi, il passaggio più dirompente, la terza invece, resa in occasione dello scoprimento della lapide avvenuto il 28 luglio 1963, alla presenza del presidente del Consiglio dei ministri Giovanni Leone, è molto più articolata e amplia i tre punti di Ettore Rosa. Spiega che la continuazione della guerra implica il ribaltamento delle alleanze e il ritorno dell’Italia alla sua naturale collocazione internazionale, così come dettata dal processo risorgimentale.
Attraverso appunti, trovati nell’Archivio privato, sei foglietti hanno attratto la mia attenzione con l’inconfondibile grafia di Galimberti, con molte correzioni posteriori di un giorno o poco più al discorso del 26 luglio, che contengono un bilancio delle manifestazioni popolari della giornata e indicano i nuovi obiettivi politici. In conclusione, incrociando le testimonianze esterne e i lacerti dell’archivio, il discorso è stato ricostruito con un buon margine di approssimazione, cercando di dare una chiave espressiva per ricreare l’atmosfera del tempo. Tenendo conto che il discorso era orale, che la foga oratoria faceva la sua parte e che Duccio era un oratore di razza.
Livio Berardo
ex presidente Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea di Cuneo