Tra qualche mese sarà l’ottantesimo anniversario dell’eccidio di Boves, tra i primi commessi dai tedeschi dopo l’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre 1943. Una tregua che produsse il collasso dell’apparato militare italiano, lasciando brancolare nell’incertezza soldati e ufficiali, privati di ordini e direttive. Qualche centinaia di questi, appartenenti alla disciolta 4ª Armata oppure già effettivi presso reparti stanziati nel Cuneese, si ritrova così alle pendici del Monte Bisalta, prendendo quartiere nelle frazioni collinari del Comune di Boves. Ma giovedì 16 settembre giungono nel paese elementi della 1ª Divisione corazzata Leibstandarte-SS Adolf Hitler che, dopo aver occupato nei giorni precedenti Cuneo e il suo territorio, esigono la consegna delle armi e la resa di questi gruppi. Tre giorni dopo, alcuni ex militari italiani fermano e catturano nell’abitato due SS inviate ad effettuare delle requisizioni.
Avuta notizia del sequestro, da Cuneo viene inviata una compagnia di soldati tedeschi per tentare la liberazione dei prigionieri con un’azione di forza, che però fallisce, e lo scontro si chiude con un caduto per parte e il rientro della truppa nel concentrico ove nel frattempo è arrivato anche il grosso del battaglione con il comandante, maggiore Joachim Peiper. Questi ordina di inviare presso gli ex militari italiani don Giuseppe Bernardi e l’industriale Antonio Vassallo al fine di indurli a rilasciare i prigionieri e consegnare la salma del caduto tedesco. Mentre i due si allontanano per svolgere la loro missione, l’ufficiale pianifica la sistemazione di mezzi e truppa sia per tutelarsi da eventuali azioni avversarie, sia per impedire cinicamente alla popolazione di abbandonare l’abitato. Ancora prima del ritorno dei “parlamentari” con i soldati liberati e la salma del nemico ucciso, scatta la feroce rappresaglia: sono incendiate 350 abitazioni e brutalmente uccise ventitré persone tra cui anziani, invalidi, infermi e ragazzi; don Bernardi e Vassallo sono assassinati ed i loro cadaveri vengono dati alle fiamme. Lo scopo di tanta violenza è evidente: l’ostentazione della brutalità avrebbe dovuto servire a prevenire il sostegno della popolazione ai gruppi di militari sbandati, ammonendo questi ultimi a non seguire l’esempio dei “bovesani”. Tuttavia lo scopo non sarà raggiunto: l’area, seppure duramente provata da questa e dalla successiva rappresaglia del 31 dicembre 1943-3 gennaio 1944 (con altri cinquantanove deceduti), a partire dall’estate del ‘44 ospiterà due brigate partigiane e la provincia avrà un ruolo rilevante nello sviluppo del partigianato piemontese.
Anche in Italia l’occupazione tedesca è caratterizzata da un ripetersi di episodi violenti. Le ragioni di tanta brutalità non sono unicamente attribuibili al pregiudizio nei confronti dei suoi abitanti, sia esso per ragioni razziali oppure per reazione al presunto “tradimento” armistiziale, seppure quest’ultimo abbia certamente un ruolo nello svolgersi di eccidi, stragi e rappresaglie in quanto alla base della non facile convivenza fra popolazione e truppe d’occupazione. L’elemento deflagrante va ricercato nella combinazione fra necessità militari (la decisione dell’Alto comando germanico di contendere agli Alleati ogni centimetro di terra), condizionamento psicologico derivante dal cosiddetto “tradimento” e progressiva diffusione del movimento partigiano: la maggior parte degli episodi di violenza sui civili avviene nelle aree rurali e montane, coinvolgendo nell’attività repressiva, spesso senza una reale ragione, una popolazione contadina e valligiana povera e già provata dalla guerra.
Tuttavia la particolare durezza dell’occupazione nazista e lo “spirito vendicativo” che la ispira non si sarebbero tradotti in violenza diffusa, se non fossero stati legittimati dalle autorità d’occupazione attraverso l’imposizione di durissime misure repressive. Sin dalle prime battute risulta evidente che l’atteggiamento smisuratamente intransigente dei tedeschi non è una risposta alla ribellione, ma una regola di condotta per prevenirne la possibile diffusione: a Boves, come un mese dopo a Caiazzo, la violenza è esercitata per mostrare la propria forza, la propria superiorità e la totale assenza di remore nell’infliggere dolori, lutti e patimenti a persone del tutto innocenti. Sebbene in quei mesi autunnali del 1943 i tedeschi in Italia siano ancora in fase di assestamento, nel loro modus agendi si possono già intravedere ben definite due linee guida: la repressione schiacciante e massiccia di resistenze impreviste, nonché – come attestano le stragi sul Lago Maggiore – la volontà di procedere alla guerra razziale (nell’Italia occupata, tra 8 settembre e 31 dicembre 1943, si contano poco meno di un migliaio di eventi violenti con quasi 3.500 vittime di cui il 70% civili).
La memoria storica delle stragi è ancora oggi viva nel Paese, sia sul piano locale sia su quello nazionale sebbene in quest’ultimo, nel corso del tempo, si sia sviluppato un processo di identificazione che ha “cristallizzato” nella memoria collettiva alcuni luoghi simbolo (Boves, Fosse Ardeatine, Monte Sole-Marzabotto), rendendo più sfocati fatti non meno significativi. Gli studi hanno poi evidenziato l’affiorare di una memoria “divisa” che ancor prima di proporre un’interpretazione “diversa” degli episodi, ne espone una rappresentazione dissimile. Se stragi ed eccidi sono entrati quasi subito nel percorso celebrativo e commemorativo nazionale, sotto il profilo della ricerca hanno subito enormi ritardi, poiché sovente l’assenza di un iter giudiziario a cui fare riferimento (solo nel 1994 si scopriranno 695 fascicoli relativi a eventi di violenza nazifascista celati nel cosiddetto “armadio della vergogna”), impedisce il dipanarsi di studi puntuali ed affidabili, consegnando così questi accadimenti più alla dimensione commemorativa che alla ricostruzione storica. Anche Boves (benché decorata nel 1961 di Medaglia d’Oro al Valor Civile e due anni dopo di Medaglia d’Oro al Valor Militare), per oltre un ventennio risente di questo slittamento, finché nel 1964 – a seguito del ritrovamento in Germania di Joachim Peiper – si costituisce, con l’adesione dell’Istituto storico della Resistenza di Cuneo, del Comune, della Provincia e di alcuni animatori della lotta di Liberazione, una “Commissione” il cui compito è la minuziosa ricostruzione dell’eccidio del penultimo giorno d’estate al fine di inviarne gli atti alla magistratura tedesca per istruire un processo nei suoi confronti. Se i frutti di questo estenuante lavoro, conclusosi quattro anni dopo, non ebbero purtroppo rilevanza sul piano giudiziario (l’iter si risolse con un discutibile proscioglimento in istruttoria emesso dal Tribunale di Stoccarda nel dicembre 1968), ebbero certamente un’importanza fondamentale per poter produrre la dettagliata ricostruzione di un avvenimento rettosi – come scrive l’avvocato Faustino Dalmazzo – “per tanto tempo più sulla leggenda che sulla realtà, questa più drammatica di quella”.