Cuneo è, dopo Roma e Trieste, la terza provincia in Italia per numero di ebrei deportati nei campi di concentramento. Un dato curioso, che non corrisponde alla consistenza effettiva della comunità ebraica locale, e che vede inseriti nel computo gli oltre 300 prigionieri del campo di Borgo San Dalmazzo, arrivati dopo l’8 settembre del ‘43 dal territorio francese presidiato dai militari della Quarta armata italiana al di là delle Alpi.
Il retroterra di Nizza era costellato di “residences assignée”, paesi dove ebrei arrivati da mezza Europa erano costretti a vivere con forti restrizioni delle libertà personali. In particolare a Saint Martin, piccolo Comune in val Vésubie, nel settembre ’43 è radunata una comunità di circa 1200 ebrei provenienti da molti Paesi europei, dall’Ungheria alla Cecoslovacchia, dalla Russia alla Polonia e arrivati dal resto della Francia per sottrarsi alla persecuzione dei tedeschi dopo la loro occupazione del territorio francese del giugno 1940.
La notizia della firma dell’armistizio costringe le truppe italiane a far ritorno in Italia attraverso i diversi colli disseminati lungo la displuviale alpina. Gli ebrei di San Martin si mettono in marcia al loro seguito fino al Colle delle Finestre e del Ciriegia, rispettivamente a 2400 e 2500 metri di altitudine, scendendo poi lungo le valli italiane nella speranza di trovare in pianura gli Alleati, prossimi a uno sbarco che si auspicava sarebbe dovuto avvenire in Liguria.
Sono tra gli 800 e i 1000, e se molti di loro trovano rifugio nelle baite dei montanari della zona, altri scendono fino a Borgo San Dalmazzo dove un perentorio manifesto firmato dal Capitano Müller intima “a tutti gli stranieri” di presentarsi alla locale caserma degli Alpini.
Molti di loro si sottraggono all’ordine e si nascondono: 350 invece, stremati dalla faticosa camminata, obbediscono e si presentano al luogo indicato dove resteranno fino al 21 novembre del 1943, quando saranno caricati su un convoglio di carri bestiame diretto a Mondovì, poi a Savona, quindi a Nizza, poi a Drancy e infine ad Auschwitz, da dove solo una manciata di loro farà ritorno.
Nello stesso campo vengono rinchiusi per un mese e mezzo i membri della comunità ebraica cuneese: interi nuclei famigliari, nessuno escluso, con anche i bambini coinvolti in una vicenda più grande di loro, come racconta Rosetta Cavaglione nel suo “Quarantacinque giorni nel Campo di concentramento di Borgo San Dalmazzo”, il diario in cui riporta la vita quotidiana della prigionia. Scrive: “Dopo quasi due mesi dal ritorno dall’Africa, in cui abbiamo vissuto meravigliosamente bene per sei anni, questa mattina sarà indimenticabile. Un risveglio brusco e terrorizzante. I tedeschi ci vengono a prelevare perché di razza ebraica: momenti di confusione e di abbattimento indescrivibile. La mamma ha avuto il doloroso incarico di svegliarmi con la triste notizia, che subito non ho interpretato nel vero senso; solo poi, quando ci hanno condotto in caserma e in seguito su un comune autocarro diretto a Borgo [San Dalmazzo], ho capito l’importanza del fatto e mi sono convinta che nella nostra bella casa non saremmo più tornati. Mi son fatta forza, ma il cuore scoppiava e il cervello, carico di troppi pensieri, pure”.
Analogo il ricordo della cuneese Clotilde Segre, Tildina, scomparsa pochi mesi fa, all’epoca poco più che decenne, arrestata nell’appartamento in cui si era rifugiata dopo la requisizione del suo alloggio in seguito alle Leggi razziste, e degli altri racconti dei protagonisti della vicenda.
I prigionieri cuneesi saranno liberati qualche giorno prima della partenza del convoglio verso Auschwitz, e di lì a poco il campo verrà chiuso per alcune settimane. Riaprirà per mano dei fascisti, che vi rinchiuderanno una seconda ondata di ebrei rastrellati sul territorio. Il 15 febbraio chiuderà definitivamente i battenti e i prigionieri rimasti saranno condotti a Fossoli per esser poi trasferiti ad Auschwitz. Alla deportazione scamperanno tutti coloro che troveranno rifugio nei paesi della Valle Gesso e delle valli circostanti, nascosti e protetti da valligiani coraggiosi, incuranti delle minacce dei nazifascisti.
Oggi accanto alla stazione da cui partirono i convogli diretti ai campi di sterminio sorge il memoriale della deportazione, che non vuole essere solo un luogo dove far prevalere l’aspetto emozionale, ma è stato pensato anche come un luogo della memoria nel quale riflettere sulle vicende legate al campo di Borgo San Dalmazzo e comprendere i processi loro sottesi. Per questo è stata allestita la sala Memo4345 con postazioni multimediali, assi del tempo, cartine e tutto ciò che può servire per ospitare incontri didattici in forma di laboratorio: un modo per rispondere all’appello di Primo Levi che nel suo Se questo è un uomo sollecita non già e non solo a “ricordare”, bensì a “meditare” che questo è stato.