Sono appena rientrati dal fronte balcanico e già si profila per i giovani degli anni Trenta una nuova spedizione, una nuova guerra, quella in Russia. A raccontarla questa volta è Dionigi Galvagno, classe 1914, panettiere di professione, soldato semplice per dovere. Nel 1936 aveva scampato la partenza per l’Africa, ma non, poco dopo, per Albania, Grecia infine Russia. “Questo mio scritto narra della sofferenza e dell’indifferenza di chi ci ha mandati”: tra questi due poli oscillano le pagine che scrisse al ritorno.
È la sera del 31 luglio 1942 quando la tradotta parte dalla stazione di Borgo San Dalmazzo. Un viaggio lungo nella cui descrizione già si percepisce l’attenzione verso ciò che lo circonda. Lo sguardo del soldato è sempre attento agli incontri, ai paesaggi attraversati, ai piccoli fatti.
Coglie tutto con quel pizzico di curiosità che sorregge la netta consapevolezza di andare verso una guerra “persa in partenza”. Ma non viene meno neanche nel pieno della tragedia quando incontra i contadini nelle isbe russe, con cui sa di condividere le stesse sofferenze. Non è un racconto come altri, né si può propriamente definire un diario. Quando, nella seconda parte, sembra prevalere la forma diaristica, in realtà riesce a imporsi solo per due mesi. Poi le date tornano a svanire. Tutto torna a essere trascinato in un fluire costante come nella prima parte. Un incalzare di fatti sempre raccontati al presente. Gli occhi del lettore sono quelli del narratore che si trova a scoprire e vivere progressivamente l’itinerario verso l’abisso. Di tanto in tanto qualcosa di più preciso affiora in questo fiume. Introdotto generalmente da “ricordo…” appare una persona, un avvenimento, perché ogni fatto corrisponde sempre a un incontro. Allora è un momento di pausa nella corrente della memoria, ma tutto viene vissuto come esperienza umana di dolore e di solidarietà. Pagine pervase dall’urgenza emozionale di raccontare. Scritte di getto, non mediate dal bisogno di una rilettura storica. Spesso diventano giudizio senza appello sul comportamento prima delle autorità di governo, poi della propaganda di regime infine dei graduati incompetenti.
Il risvolto di questa assurdità è nei gesti di condivisione del pane anche con prigionieri e profughi russi “sbattuti in quel grande caos”, nella solidarietà tra i soldati che vanno avanti non per eroismo, ma “per dovere, per obbligo e per quella rassegnazione che ha sempre contraddistinto le classi subalterne”.
Il pane e la neve
Dionigi Galvagno
Miraggi edizioni
p. 216 euro 16