Raccontare la malattia per chi malato non è: impresa ardua sia per l’autore, che deve fare i conti con se stesso, sia per il lettore, che deve avvicinarsi senza una precomprensione ingannevole.
Per questo motivo raccontare la malattia è anche un dialogare con se stessi, non per vincerla, bensì per renderla consapevolmente presente come un altrove in cui si è precipitati e dove si è costretti a vivere.
A ogni passo si percepisce la pietra d’inciampo dell’autocompassione, dell’indicibile dolore fisico che mette in crisi la propria interiorità: la malattia “è come un meteorite che colpisce la Terra: sposta l’asse, altera gli equilibri”, scrive un autore.
E come dire la malattia se non partendo dal corpo? Da quel corpo che è il tramite attraverso cui si entra nel mondo, si vive di questo mondo e che è in crisi quando gli equilibri si infrangono, che diventa espressione del dolore e dello smarrimento. Umberto Galimberti nella breve prefazione parla di questo corpo che d’improvviso si divide dall’io sconvolgendo l’ordine dell’esistenza, diventando l’orizzonte entro cui vagare.
Così i “21 racconti” di questo libro sono scritti con una rude immediatezza, quasi urtante, privi come sono di quei paraventi nel parlare del corpo malato e delle cicatrici, “crude verità”, di cui il fisico è segnato che cercano il più delle volte, ma non certo in questo libro, la compassione. Le parole sono invece dirette, talora insopportabilmente vere, eppure c’è in ogni racconto il bisogno e la voglia di riaffermare la vita raccontandola: “Ho bisogno di speranza, ho bisogno di orizzonti” – chiude Dino.
Da qui in poi
Aa.Vv.
Utet
pp. 128 € 15