Un’occasione felice in tempi di streaming impazzito e visioni su divano. È l’appuntamento che propone Rai 1 venerdì 22 in prima serata con “Felicia Impastato”, film di Gianfranco Albano dedicato alla mamma di Peppino Impastato, il giovane giornalista ucciso dalla mafia l’8 maggio 1978. Aveva avuto il coraggio di sfidare Gaetano Badalamenti.
Per la mamma Felicia si tratta di affrontare un’altra sfida. Prima quella col marito, quella tutta personale col dolore per la perdita di un figlio, infine, per scelta personale, della lotta per far emergere la verità.
Forte l’impatto delle prime immagini su cui scorrono i titoli di testa. Tutto è concentrato su questa donna che entra nel palazzo di giustizia. Mentre una voce fuori campo registra le fasi introduttive del processo, questa donna s’aggira un po’ spaesata nell’atrio del tribunale di Palermo. È piccola rispetto alla grande architettura che l’accoglie.
Deve arrivare il figlio Giovanni ad accompagnarla nell’aula: e noi li seguiamo scendendo coi piedi per terra. Dalla suggestione alla realtà. È il 2000. Dopo il magistrato Rocco Chinnici, assassinato da diciassette anni, ora è una giovane magistrata, Francesca Imbergamo, a portare avanti con la stessa passione civile l’accusa che ha lanciato Felicia Impastato contro il boss Gaetano Badalamenti.
Un incrocio di tre personaggi: l’uno, Peppino, è affidato alla memoria, e gli altri due dai volti femminili hanno in comune il senso della dignità e della responsabilità civile. Se per la Imbergamo si tratta di “lavoro”, seppur assolutamente consapevole che la posta in gioco è decisiva, Felicia invece si è fatta avanti forte del suo animo. Il primo piano tradisce uno sguardo intenso, segnato dal dolore, ma sorretto dalla coscienza della dignità propria e del figlio ucciso. La vendetta non le interessa: chiede giustizia.
In Felicia si fondono le due dimensioni di persona, quindi mamma, e cittadina, quindi consapevole della propria responsabilità. La prima sorregge la seconda, senza assolutamente farsi funzionale nella narrazione alla retorica. Come mamma sta dalla parte dei figli, in particolare di Peppino: suo padre, legato alle cosche mafiose, “lo cacciava fuori di casa e io lo facevo entrare”.
Dapprima ha davanti la memoria infangata di Peppino con l’accusa di terrorismo. Poi affiora il desiderio di giustizia. La tenacia nel chiedere un processo ai colpevoli. Il senso di dignità nel parlare apertamente trovando una sponda in Rocco Chinnici. Sono i cento passi che ha percorso suo figlio, quelli che dividono l’omertà malavitosa dal onestà civile.
Così “Felicia Impastato” è testimonianza anche per le nuove generazioni che spesso di quella storia hanno appena sentito parlare. Un’occasione per incrociare e confrontarsi con un modello.