Un piccolo grande capolavoro. Intenso, drammatico, con una dolente nota di malinconia, permeato dal rimpianto per ciò che fu e che poi non sarà più. In uno stile unico come quello della Nemirovsky fatto di una trama concisa, capitoli brevi, dialoghi incalzanti e un’attenta analisi psicologica dei personaggi.
La protagonista è Tat’jana Ivanovna, balia di professione, vedova settantenne, sopravvissuta a figlio e marito, una donna fragile, dall’aria vivace e dallo sguardo che da acuto comincia a farsi trasognato. A servizio dell’aristocratica famiglia Karin che da generazioni vive in una maestosa dimora nella Russia nordoccidentale. È lei che saluta i due fratelli Jurij e Kirill in procinto di partire per la guerra nella scena iniziale del lungo racconto e da lì rimane sola, a sorvegliare la grande tenuta dopo la fuga dei Karin a Odessa nel gennaio del 1918, accoglie Jurij braccato dai nemici e intraprende, senza alcuna esitazione, un viaggio difficoltoso per raggiungere i padroni con i gioielli cuciti nell’orlo della gonna. Un grane affresco della storia di inizio Novecento vissuto in prima persona. Con il suo modo di agire devoto, Tat’jana Ivanovna rappresenta il legame con un’epoca d’oro il cui idillio viene spazzato via con violenza dalla rivoluzione bolscevica. Mentre la famiglia dei Karin, disillusa, fatica ad adattarsi al misero presente, la balia, rimettendosi alla volontà divina, sopravvive grazie ai ricordi, perennemente indaffarata in faccende domestiche in attesa dell’arrivo della neve a Parigi. La storia di una fedeltà incancellabile, di una domestica che abbraccia la vita e il destino dei suoi padroni senza mai avere ripensamenti.
Come le mosche d’autunno
di Irene Nemirovsky
Garzanti