Siete degli appassionati scatenati di Elena Ferrante? Vi siete letti tutta la tetralogia de ”L’amica geniale” e vi è dispiaciuto immensamente quando l’avete finita? Non siete affatto stupiti del successo planetario di questa scrittrice (o scrittore?) di cui non si conosce la vera identità, perché secondo voi sa toccare corde che raramente vengono raggiunte? Siete interessati alla diatriba su chi si nasconda dietro questo fortunato “nom de piume” (Anita Raja, la moglie di Domenico Starnone, lo stesso Starnone oppure Marcella Marmo o chissà chi altro) oppure questa ricerca vi sembra superflua o quasi quasi dannosa? Oppure siete tra chi ha provato a leggere la fortunata serie ma non è riuscito ad entusiasmarsi più di tanto, pur riconoscendo alla misteriosa Autrice un talento innegabile?Comunque sia, è difficile che non siate stati colpiti da una scena del primo volume: da quando, cioè, Lila, l’amica assolutamente speciale dell’io narrante (Lenù), prende la bambola della sua compagna e la getta senz’apparente motivo in un sottoscala buio e spaventoso. Gesto seguito da un’azione identica della vittima del sopruso. Il tentativo di recuperare i due amati giocattoli (Nu e Tina, il loro nome) risulta inutile oltre che particolarmente ansiogeno, visto il luogo terrorizzante dove sono costrette ad andare: le bambole sono scomparse e le due complici/antagoniste si convincono che il colpevole sia don Achille, un profittatore di guerra che le due bambine considerano una sorta di incarnazione del Male e che saranno quindi costrette a incontrare in un’ulteriore prova di coraggio.Queste pagine della Ferrante hanno ispirato uno dei più importanti e raffinati gruppi del teatro di ricerca italiano, i ravennati Fanny & Alexander, autori in passato di appassionanti confronti letterari – sempre in più puntate – col Nabokov di “Ada” e con il Baum de “Il mago di Oz” (impossibile dimenticare gli incubi pittorici dello straordinario “Kansas” e il delirio linguistico di “West” con una Francesca Mazza premio Ubu).Il risultato di questo primo dialogo con la Napoli de “L’amica geniale” si intitola “Da parte loro nessuna domanda imbarazzante” (verso di una poesia di Wislawa Szymborska) ed è stato presentato a Torino, in un Teatro Astra torrido, il 21 giugno, pressoché alla fine della XXII edizione del Festival delle Colline Torinesi. Accompagnata dalla sanguigna Fiorenza Menni della compagnia bolognese AtelierSì, Chiara Lagani (drammaturga e pilastro – insieme al regista Luigi De Angelis – di Fanny & Alexander) ha dato voce e corpo alle parole della Ferrante, insistendo sull’abissale alterità con cui si confrontano le due ragazzine. Aiutate da una partitura di suoni e luci curatissima, le due attrici si trasformano progressivamente a livello fisico nelle due bambole scomparse, le quali diverranno protagoniste della seconda parte dello spettacolo, spesso in versi dalle rime inquietanti, aprendo una dimensione surreale e oscura, che le voci (a volte modificate) e i gesti sempre più inumani rendono concreta. Il risultato è alla fine suggestivo ed emozionante, nonostante che il lavoro, in certi punti, potesse apparire un po’ ripetitivo.Sempre il 21 l’artista, attore e regista libanese Rabih Mroué, un’altra presenza costante negli anni al Festival, ha presentato una sorta di conferenza spettacolo che s’è svolta nella sala video del Polo del ‘900 di Torino. Il titolo era “Pixelated Revolution” ed era un’illuminante riflessione sulla guerra in Siria e sui conflitti in genere nell’epoca degli smartphone, di YouTube e dei social network. Seduto ad una scrivania di fronte ad un laptop, ha mostrato e analizzato video trovati in rete e girati durante la rivoluzione siriana del 2011 e la successiva furiosa reazione del regime di Bashar al-Assad, che ha dato origine alla guerra civile e provocato quasi 500mila morti e milioni di profughi, l’intervento dell’ISIS (ora fortunatamente in crisi), nonché un preoccupante e serrato confronto tra Iran e Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti, Turchia e curdi. Mroué ha confrontato le immagini del regime (in alta definizione, riprese con un cavalletto) e quelle dei ribelli (spesso pixellate, strappate rischiosamente con un telefono o una piccola videocamera a mano), insistendo poi su filmati il cui autore è stato ucciso o comunque – chissà – gravemente ferito dal cecchino, dal soldato o dal carrarmato che veniva inquadrato da quella protesi dell’occhio che è appunto lo smartphone. Provenendo da un Paese già di per sé anormale e ora oltretutto contagiato dall’esplosione della Siria, l’artista ha portato il pubblico del Festival delle Colline Torinesi in mezzo dell’attualità più scottante, riflettendo sull’efficacia o meno di questi documenti visivi vista la brutalità del contesto e l’assuefazione all’orrore di chi li guarda, senza rinunciare però a porsi domande vertiginose come “È possibile filmare il passaggio tra la vita e la morte?”.Il 15 e il 16, sempre all’Astra, il Festival inventato da Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla aveva invece presentato l’attesissimo “50 Grades of Shame (50 gradi di vergogna)” del collettivo berlinese She She Pop, divenuto uno dei nomi più apprezzati del teatro sperimentale europeo. Ispirandosi da un lato ad un’opera scandalosa colta del passato (“Risveglio di primavera” che Franz Wedekind, lo stesso di “Lulu”, scrisse tra il 1890 e il 1891) e dall’altro ad un best seller erotico popolare di qualità assai discutibile come “Cinquanta sfumature di grigio” di E.L. James, il gruppo s’è interrogato sul senso della sessualità oggi e in passato, affidando ai vari attori il compito di svolgere delle vere e proprie lezioni (sul senso del pudore, su ciò che è lecito oppure no, sul ruolo del desiderio e dell’identità sessuale, etc.), in cui i testi delle due opere s’intrecciavano a riflessioni più personali. Il tutto avveniva mentre Santiago Blaum costruiva dal vivo la colonna sonora dello spettacolo e soprattutto una serie di telecamere creava altrettanto in diretta, su due schermi, dei corpi immaginari che erano la sommatoria delle varie parti dei corpi dei performer (giovani o meno giovani, maschi o femmine, magri o meno in forma che fossero), in un gioco – divertente e inquietante allo stesso tempo – tra reale e virtuale, alla ricerca di un superamento non solo delle proibizioni del passato ma anche delle costrizioni estetiche della società contemporanea, fino ad un’accettazione gioiosa del proprio corpo e di se stessi. Se lo spettacolo avrebbe forse guadagnato in incisività prosciugando la parte centrale e riducendo di una mezz’ora la durata complessiva (105’), in compenso tutta la parte finale era a dir poco elettrizzante: la notte folle in hotel, la poetica e struggente morte di Moritz (il personaggio che si suicida nel lungimirante dramma di Wedekind, vero nucleo del lavoro) e la “danza macabra” finale meritavano da soli i tantissimi applausi rivolti dal pubblico. Tra i 27 spettacoli presentati in 19 giorni dalla rassegna torinese, c’erano anche “Pedigree” di Babilonia Teatri e “Masculo e fìammina” di Saverio La Ruina: dato che chi scrive li ha visti entrambi alla “Fabbrica delle idee” di Racconigi, saranno trattati in un successivo articolo sulla rassegna diretta da Marco Pautasso.