
Piero Pizzi Cannella, Alle Querce di Mamre, Lezionario feriale sabato della XII settimana, anno dispari.
Gen 18, 1-10a; Sal 14; Col 1,24-28; Lc 10,38-42
Ognuno di noi, almeno una volta nella vita ha ospitato ed è stato ospite. Abbiamo fatto esperienza di come sia bello, ma nello stesso tempo anche complesso ospitare qualcuno e farsi ospite.
Certamente l’ospitalità è un segno di umanità: non solo invitando a pranzo ma anche ascoltando l’altro (ospitare la sua parola, il suo sguardo, le sue gioie e fatiche).
Il Vangelo della scorsa domenica raccontava di un samaritano che ha ospitato un uomo depredato e picchiato. San Paolo raccomandava alle comunità cristiane in Roma: «Siate solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» (Rom12,13).
L’accoglienza dell’ospite, sollecitata da Gesù e dagli apostoli, non è ovviamente da intendersi solo come raccomandazione di invitare a cena gli amici. L’ospite nei cui confronti è raccomandata l’accoglienza è anzitutto l’estraneo, colui che non ha casa, colui per il quale la tua accoglienza non è un piacevole diversivo, ma il rimedio ad una condizione di solitudine ed indigenza.
Già nell’Antico Testamento il valore dell’ospitalità era sottolineato mediante una giustificazione: «perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lev 19,34). Lo straniero ci ricorda quale sia la nostra condizione originaria: «Non essere sordo alle mie lacrime, poiché sono un forestiero, uno straniero come tutti i miei padri» (Sal 39,13).
Certamente l’ospitalità dello straniero è un tema delicato: egli è innanzitutto esterno al mondo in cui abitiamo e per questo ci appare come fonte di perplessità: differenze di lingua, norme giuridiche, leggi, codici civili, costumi.
Tra lo straniero e il nemico c’è una potenziale coincidenza: la parola ospite è uno dei tanti sinonimi di straniero. Tra ospitee ostile, ostico, nemico, avversario il passo è breve. Dobbiamo riconoscere l’estraneità come dilemma da risolvere, da affrontare. La difficoltà non va taciuta.
«Ero straniero e mi avete ospitato»: Gesù stesso così si descrive durante il suo pellegrinaggio terreno: «Quando mai ti abbiamo visto affaticato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?».
L’ospitalità non va da sé, è una scelta, non così naturale tanto che per il profeta Isaia l’ospitalità e l’aiuto sono il “vero digiuno” che il Signore desidera.
Un comandamento della Lettera agli Ebrei è promettente: «perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2). L’angelo non è semplicemente uno dei nostri. Può anche essere l’estraneo al mio gruppo, alla mia storia.
Ancora una volta l’ospitalità rimanda all’insicurezza, e quindi all’umiltà. Si è davanti a un atto di fiducia. Da un lato si apre al rischio e dall’altro al manifestarsi di una relazione che può diventare rivelazione.
La Lettera agli Ebrei non cita il nome di Abramo e l’episodio di Gen 18.1-16.
Da questo dovremmo dedurre che l’ospitalità più autentica ha luogo quando non si sa il nome di chi accoglie e chi domanda non sa il nome di chi lo deve ospitare.
La parabola dell’ospitalità lungo i secoli va dal divieto di chiedere il nome dell’ospite fino al biglietto da visita, dove l’annuncio delle proprie generalità precede l’incontro tra persone. Anche un tempo poteva avvenire di essere depredati, ma poteva capitare pure di ospitare angeli. Senza saperlo.
Ma proprio perché questo è il senso ed il valore, occorre che lo straniero non sia semplicemente servito, nutrito. Occorre soprattutto che egli sia ascoltato, e così la sua presenza diventi familiare.
Se c’è una difficoltà di ospitare chi non conosci (prima lettura), c’è anche una difficoltà di ospitare chi conosci (vangelo)
L’atteggiamento di Maria che si mette ai piedi di Gesù, è la postura classica del discepolo. Nella vita cristiana il Maestro ci chiede di ospitare anzitutto la sua parola. «Grazie Marta, sono contento di ciò che mia ha preparato, ma non lasciarti prendere dall’affanno, fino a dimenticare la mia presenza. Marta, io vorrei che tu ascoltassi ciò che ho da dire».
Oggi si moltiplicano le istituzioni che provvedono ad ogni forma di malattia, di solitudine, di infermità; ma diminuisce la probabilità per l’ospite di trovare davvero fratelli e sorelle disposti ad ascoltare. E forse addirittura nella propria casa, tra i propri familiari, ciascuno trova più facilmente servizi e cure d’ogni genere che effettiva ospitalità, cioè ascolto ed accoglienza per il proprio desiderio di comprensione e solidarietà: «Sono un estraneo per i miei fratelli, un forestiero per i figli di mia madre» (Sal 69,9).
Dunque, l’ospitalità comincia dalle persone che abitano sotto il tuo stesso tetto, ma che ancora attendono da te un segno; un segno che dica: «Non ho troppo da fare, non sono di corsa, non fuggo: posso fermarmi qui con te ad ascoltarti. Anzi, non solo posso, ma desidero questo più d’ogni altra cosa».