
Giovanni Chiaramonte, «Via Emilia» (Piacenza) – Foto Ansa
Dt 26,4-10; Sal 90; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13
Nella Lettera agli Ebrei si legge che il Figlio imparò l’obbedienza dalle cose che patì. Alla luce del vangelo di questa domenica non c’è dubbio che fin dall’inizio così è stato. Il deserto di Giuda, quello nei quali Gesù trascorse i quaranta giorni, non è altra cosa dal teatro abituale della sua vita.
Luca mette in scena questa lotta interiore che Gesù vive, in una pagina che vibra di mille allusioni bibliche. Il Figlio viene portato nel deserto delle «tentazioni» come un tempo è stato per il popolo dell’alleanza e viene toccato nel vivo del desiderio come in origine si racconta dei progenitori.
Ciò di cui si tratta è la prova del cuore. Un cuore sempre diviso tra il fidarsi e lo sfidare. E lì, in quella frattura, si intromette in modo puntuale la lusinga e il sospetto.
Nell’inciso «se tu sei Figlio di Dio» c’è il trucco del tentatore.
All’orecchio del Figlio, con metodica insistenza, arriva l’insinuazione del un dubbio radicale: «sei proprio sicuro di essere figlio di Dio? sei proprio così certo che Dio sia un padre? proprio per te? non sarà che ti stia usando? e sei poi così certo che questo padre esista realmente? la cosa migliore sarebbe produrre prove inequivocabili, sprigionare lo spettacolo del soprannaturale (la gente si spellerebbe le mani in ovazioni travolgenti); e se vuoi andare ancora più sul sicuro non ci sarebbe che affidarsi alle potenze del mondo: imporresti, così, il bene sulla terra! Non è quello che vuoi?».
La menzogna, in modo perfido, striscia fra le righe.
E continuerà la sua insinuazione fino alla fine, per tutti i giorni nei quali Gesù trascorrerà in mezzo agli uomini. La voce del tentatore suona quasi uguale alla voce della folla, dei capi del Sinedrio, degli scribi, dei farisei: «Se è Figlio di Dio, scenda dalla croce, e gli crederemo».
L’ultima tentazione, in Luca, ha a che fare con la protezione divina legata al culto. Per questo motivo è connessa con il tempio.
Si è tentati sulla falsa fiducia secondo la quale il dar lode al Signore sia una garanzia di tutela – più di altri – dalle sventure della vita. Ma il culto non impedisce la sofferenza, il dolore che l’esistenza propria o altrui tante volte ci fa conoscere. Rendere grazie a Dio non è una forma di assicurazione sulla vita.
Eppure il Signore ci ha promesso la sua protezione.
La tentazione s’incentra proprio su questo impegno divino.
Nelle prime due, Gesù replica al diavolo con parole tratte dalla Scrittura: «Sta scritto:…»; nella terza è il divisore che si serve dalla parola di Dio. L’espressione «sta scritto», che prima fungeva da replica per Gesù, ora è rilanciata come sfida dal divisore: «Se sei Figlio di Dio, gettati giù da qui, sta scritto infatti: Ai suoi angeli darò ordine a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano» (Lc 4,10; Sal 91,11).
La tentazione è diventata interna alla fede.
Qui Gesù non fa più ricorso al verbo «scrivere»; egli si affida a un «è stato detto». Con quelle parole indica che il vero tentato non è il Figlio, bensì il Padre stesso: «È stato detto: Non metterai alla prova il Signore tuo Dio» (Lc 4,12; Dt 6,16). La tentazione autentica riguarda le promesse del Signore, è messa in discussione dal tentatore l’efficacia della parola di Dio.
«Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato» (Lc 4,13).
All’inizio della quaresima lo sguardo si rivolge già al Venerdì santo.
Gesù non fu risparmiato da morte, nessun angelo lo tirò giù dalla croce.
Luca fa morire Gesù non con un grido di abbandono, ma con parole di affidamento: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 22,46; Sal 31,6).
Nelle tentazioni il diavolo dichiara che gli angeli «ti porteranno sulle loro mani» (Lc 4,11, Sal 91,11); tuttavia, quando si è nella prova più grande e decisiva le mani a cui affidarsi non sono angeliche, sono quelle del Padre rispetto al quale si è il Figlio e si è figli.