Sapeva che la madre teneva dei diari giornalieri fin da quando lei e la sorella erano piccole e nel corso della terapia che aveva intrapreso con una psicologa per ricostruire il doloroso vissuto con i genitori, aveva cercato le pagine relative al periodo delle scuole superiori; erano gli anni in cui quelle tensioni familiari si erano manifestate con continui attacchi di panico e la ragazza voleva sapere cosa la madre pensasse e scrivesse del suo malessere. Tra le pagine del diario trovò, però, qualcosa di ancora più sconvolgente, e cioè l’accusa di pedofilia rivolta a suo padre dai nonni.
Parte da qui la vicenda processuale di B.M. e A.R., i genitori denunciati nel 2020 dalla figlia per maltrattamenti e da un nipote per violenza sessuale, e condannati dal collegio dei giudici del Tribunale di Cuneo rispettivamente a 5 anni e mezzo e 4 anni di reclusione.
Dopo la lettura di quelle pagine la ragazza aveva parlato con i nonni, che avevano confermato quanto scritto dalla madre; raccontarono degli abusi sui fratelli più piccoli, su un nipote e un figlio dei vicini avvenuti decenni prima. Una verità nota tra i parenti, ma sempre taciuta. Dalle indagini emerse però un nuovo episodio di abusi su un altro nipote: un fatto molto più recente che è valso all’uomo, oltre all’accusa di maltrattamenti, anche quella di pedofilia.
Sebbene quegli episodi di molestie risalenti a molti anni addietro fossero tutti prescritti, in aula i parenti dell’uomo avevano confermato di essere stati vittime di quelle attenzioni morbose. Abusi confermati dal nipote e che si erano verificati quando lo zio spesso lo portava a vedere i pulcini dell’allevamento che gestiva vicino Cuneo.
Nel corso dell’istruttoria la ragazza aveva raccontato dei tanti episodi di violenza domestica subiti, racconti confermati dalla sorella, che però aveva scelto di non costituirsi parte civile; violenze fisiche e psicologiche, come l’essere chiuse in cantina al buio o fuori casa di notte per qualsiasi comportamento giudicato non corretto. Vessazioni e umiliazioni che indussero le due ragazze a trasferirsi dai nonni in età adolescenziale; una scelta che per la ragazza costituita parte civile fu definitiva, dato che da quel giorno non fece più rientro a casa.
Nel corso della terapia intrapresa in quegli anni la giovane prese coscienza delle violenze subite e in seguito decise di denunciare i genitori.
“Dalle pagine di quel diario emerge – aveva concluso il Pubblico Ministero Alessia Rosati – la profonda idealizzazione della donna nei confronti del marito e il rapporto conflittuale e aspro con le figlie che venivano soprannominate ‘le tipe’. Vengono descritte le punizioni cui venivano sottoposte, il salto dei pasti o l’obbligo a consumarli anche stando sedute a tavola per ore”. E poi i racconti delle due figlie, delle botte a mani nude o con la scopa sulle gambe per farle cadere a terra. La macchina chiusa a chiave per impedire vi si rifugiassero quando venivano chiuse fuori casa di notte in pieno inverno. La figlia che fu tenuta a dormire nel letto con le sbarre fino all’età di sette anni quando, ormai troppo cresciuta, doveva starci tutta rannicchiata.
“La madre – aveva ancora detto il Pubblico Ministero – si era detta anche sollevata quando le figlie si erano trasferite dai nonni perchè così poteva dedicarsi al marito. Gli attacchi di panico della figlia venivano definiti come ‘sceneggiate’ e assolutamente non compresi. In una di quelle pagine la donna riferisce che la nonna delle ragazze l’aveva ammonita dicendole che prima o poi le avrebbero tolto le figlie”.
Accuse gravi e confermate dai testi che per l’accusa valevano la richiesta di condanna a 10 anni per il padre per il reato di pedofilia e a 6 anni per entrambi per il reato di maltrattamenti.
“La mia assistita solo con la terapia prende coscienza del fatto che quei comportamenti non erano normali e che i suoi frequenti attacchi di panico rappresentavano la sua incapacità di gestire lo stress” – ha concluso l’avvocato Anfossi di parte civile, associandosi alla richiesta di condanna.
Per gli avvocati Roatis e Brandi, invece, le testimonianze, anche contraddittorie, dei testi non avevano provato al di là di ogni ragionevole dubbio il narrato della figlia costituita parte civile. “Nessuna delle maestre aveva notato lividi o atteggiamenti delle bambine che facessero pensare ad un disagio – avevano sottolineato i due difensori – e anche le psicologhe che ebbero temporaneamente in cura la ragazza non avevano mai riscontrato nelle loro sedute dei racconti di maltrattamenti o violenze. Era una famiglia partecipe del malessere della figlia; erano loro ad accompagnarla al Pronto Soccorso e a farsi carico delle cure”. Mentre secondo la difesa era stata proprio lei, la figlia, ad aver attivato la causa contro i genitori quando questi si erano rifiutati di continuare ad aiutarla economicamente nell’impresa che aveva avviato proprio grazie al loro consistente contributo.
Per il collegio dei giudici, però, le accuse portate in aula erano fondate e per questo padre e madre sono stati condannati rispettivamente alla pena di 5 anni e 6 mesi lui ( 2 anni per i maltrattamenti e 3 anni e mezzo per gli abusi sessuali), e 4 anni lei per il reato di maltrattamenti. È stato anche stabilito un risarcimento di 15mila euro per il nipote costituito in giudizio per gli abusi di cui era stato vittima e di 30mila euro per la figlia che li aveva denunciati. Per il padre anche le pene accessorie di interdizione dai pubblici uffici per 5 anni e l’interdizione in perpetuo dalla curatela e il divieto di assumere incarichi in luoghi frequentati da ragazzi.