Giovanni Goria (Asti), secondo piemontese dopo Giuseppe Pella (Valdengo, ora provincia di Biella), a guidare il governo della Repubblica (Giuliano Amato, suo vice presidente, nato a Torino, venne dopo), fu il “traghettatore”, nel 1987, della decima legislatura repubblicana, conclusasi in modo traumatico la IX, dopo l’esperienza dei due esecutivi capitanati da Bettino Craxi, venuto meno il patto della “staffetta” con il leader Dc, Ciriaco De Mita. Trent’anni fa la morte del parlamentare astigiano, a soli 51 anni. Nella tessitura della storia della Repubblica, Gianni – come era chiamato da chi lo conosceva – rappresentava la quarta generazione del movimento dei cattolici democratici che si era riconosciuto nell’esperienza della Democrazia Cristiana. Di solida formazione, i suoi talenti erano stati riconosciuti dalla classe dirigente dell’epoca, che era giunta ad affidargli, a soli 39 anni, il dicastero del Tesoro, chiave di ogni governo. A soli 33 anni la gente della sua terra lo aveva voluto, nel 1976, Deputato al Parlamento. Esprimeva una leadership mite, radicata in un territorio e figlia di una popolazione in cui prevalevano senso del limite, umiltà, laboriosità e senso del dovere. Marco Goria, il figliolo che presiede oggi la Fondazione intitolata al suo nome, nella giornata che il Presidente Mattarella ha voluto dedicare alla figura dello statista, ha dato conto dello sconcerto, se non dello sgomento, che fece seguito, in famiglia, alla sua prima elezione alla Camera. Mai volle abbandonare la sua città, il Piemonte, nonostante i crescenti impegni, sino alla elezione, nel 1989, a presidente della Commissione politica del Parlamento Europeo. Gli elementi che caratterizzarono la sua azione furono la concretezza (lontano da discorsi fumosi), l’ascolto (famosa fu la sua definizione di “nasometria”, accanto alla econometria, per sorreggere le iniziative di governo, nel senso di attenzione ai fenomeni in atto e non a quelli tardivamente registrati dalle statistiche), la spinta all’innovazione in un ambito che fosse significativo, come quello europeo. Approccio che lo avvicinava a una visione alta della politica, che per lui significava contribuire alla soluzione dei problemi delle persone e delle famiglie. “Compito della democrazia – scrisse – non è tanto stabilire dove andiamo… ma come andiamo: cioè nella libertà, nell’autonomia, nel solidarismo, nel rispetto reciproco, senza sopraffazioni… La politica non può e non deve rinunciare alla sua funzione di guida della società: però ha valore solo se, garantendo la libertà, risponde alle esigenze effettive della società e, quindi, ai bisogni delle persone”. Ma non per corrispondere a spinte particolari perché, aggiungeva: “sarebbe un ben triste momento per una classe dirigente quello in cui dovesse perdere la fiducia di poter trovare consenso su obiettivi di carattere generale e si mettesse a inseguire interessi particolari”. Insegnamento e monito davvero severi, preziosi per una riflessione oggi.