Fossano – È entrata nel vivo, al processo per il crollo del ponte di Fossano, la discussione sulle responsabilità del cedimento della struttura avvenuto il 18 aprile 2017. Dopo aver appurato, con le consulenze dei periti del pubblico ministero, che il ponte è crollato perché in circa un terzo del viadotto era scarsa o completamente assente la pasta cementizia che avvolgeva i cavi contenuti nelle guaine di protezione. L’acqua che penetrava dagli sfiati, realizzati proprio per iniettare la boiacca nelle guaine, lentamente ha eroso i cavi che poi hanno ceduto provocando il crollo di parte della struttura. Poche discussioni ha in realtà suscitato la perizia di parte svolta dall’ingegner Grassi per conto dei tre dipendenti Anas accusati di non aver segnalato tempestivamente le macchie che si erano create sotto le campate del viadotto in corrispondenza dei cavi di precompressione; nel resoconto della sua perizia l’ingegnere ha ricapitolato gli elementi che secondo la circolare ministeriale avrebbero dovuto far scattare il campanello d’allarme in coloro che erano deputati a eseguire i controlli periodici sulla struttura e fra quei campanelli d’allarme non erano citate le macchie o infiorescenze. Anche nel caso in cui quelle macchie fossero state segnalate, avrebbero portato a controlli approfonditi dove la boiacca era stata iniettata correttamente, cioè nei conci C e B dove era visibile il fenomeno della coltura della boiacca. Nel concio A dove era assente la boiacca non c’era nessuna infiorescenza, eppure era quello il punto dove poi avvenne il crollo. Molte discussioni ha invece suscitato la perizia di parte svolta dall’ingegner Piccinelli per conto dei due imputati dipendenti della società Ing Franco & C. SpA. Alla società era stata demandata la fornitura e messa in opera degli elementi prefabbricati in cemento armato, la tesatura dei cavi di precompressione e l’iniezione di boiacca e a loro la Procura contesta imperizia e negligenza nell’esecuzione dei lavori. Secondo il perito però la mancanza o scarsa presenza di questa malta di protezione dei cavi era dovuta alla sua realizzazione che non era di competenza della società ma del consorzio di imprese che eseguirono i lavori; la malta fatta di cemento, acqua e additivi sarebbe stata troppo fluida a causa di una percentuale troppo alta di acqua e quando fu iniettata a partire dal concio che si trovava più in basso (quello crollato), il cemento si sarebbe fermato nei conci B e C e poco nel concio A dove col tempo si sarebbero creati buchi in cui sarebbe penetrata l’acqua che corrose i cavi. Secondo il perito c’erano stati anche errori nella manutenzione ordinaria durante le operazioni di rifacimento dell’asfalto che sarebbe stato aggiunto nel tempo senza rasare quello rovinato, alzando così il livello dell’asfalto fino a superare il livello della soletta impermeabilizzata e provocando sui cordoli laterali una stagnazione d’acqua proprio in corrispondenza degli sfiati. L’esame delle perizie proseguirà nella prossima udienza fissata al 19 marzo.