Giovanni Maunero, conosciuto con il nome d’arte Mao, è uno scultore bovesano. Dipendente pubblico in pensione, ha alle spalle oltre 40 anni di produzione che si caratterizza per un’arte plastica fondata su materiali di recupero e caratterizzata da un’impronta personale portata dal percorso di autodidatta, irriducibile a una precisa corrente scultorea. Da sempre utilizza materiali di recupero, creando esseri che s’ispirano al mondo animale assemblando scarti di produzione, metalli, plastiche, vetri, con calchi di cemento e involucri, bottiglie, flaconi e contenitori usati. Ha eseguito più di tredicimila opere di scultura astratta, avveniristica, postmoderna in quello che lui stesso definisce “Iperproduttivismo” e “sincretismo dell’industrialismo”. Esegue le sue opere, alcune gigantesche come il monumento inaugurato qualche anno fa alla porte di Boves, “evocando nella sua personale sperimentazione potenti figure antropomorfe e zoomorfe, che nei preminenti materiali metallici ricordano talvolta dei retrofuturistici robot”, scrive Gianni Bava. “La sua produzione – continua Bava – si caratterizza per un’arte plastica fondata su materiali di recupero e caratterizzata da un’impronta personale portata dal percorso di autodidatta, irriducibile a una precisa corrente scultorea, nonostante alcune reminiscenze dei mobili di Calder… Le sue creazioni sono assemblaggi di vari scarti di produzione quali metalli, plastiche, vetri, calchi di cemento, involucri, bottiglie, flaconi e contenitori usati; una scultura che è stata definita come Arte Fattuale dallo scrittore e critico Antonio Sartoris, per la sua capacità di “porsi dinanzi ad un fatto, un’opera, un oggetto che, per tanta gente, sono semplicemente delle cose con una propria personale visione che si colloca a fianco della cosa stessa o la sovrasta”. Una ricerca, dunque, che approfondisce il centrale studio novecentesco del Ready Made e dell’Object Trouvé, dal cavatappi di Duchamp in avanti; ma che rimanda in fondo alla più ancestrale tradizione scultorea delle pietre-stele vagamente dirozzate in età preistorica, fiorente anche dalle nostre parti, come a Briaglia”.
Nel 2007 è entrato nel Guinness per aver realizzato 451 creazioni in cento ore. Nelle sue opere l’usura del tempo diventaprincipio di un altro inizio per cui la morte è una trasformazione, e la trasformazione non è una morte. Ha esposto in varie collettive e personali a Mondovì, Boves, Cuneo (l’ultima Arduità nella Sala della Provincia a settembre 2013) e ultimamente ha intrapreso rapporti con la Francia e la Spagna. Fino al 2013 ha sempre visto il suo lavoro come collezione privata, continuano la sua ricerca sulla complessità e l’originalità della vita.
Scrive Ticase: “Il linguaggio asciutto adottato dall’artista esalta ed amplifica la sensazione di metafisica aridità tutt’intorno all’opera, rimarcando ulteriormente la nudità di questa radiografia. E sarà sempre il linguaggio sermocinante, fondato sulla trasparente sintassi di un periodare cumulativo e paratattico, il rivelatore di uno spessore teo-antropologico peculiare ad una visione che rinviene la propria più valida dimensione espressiva nella supplica aperta, ma non paga di caustiche confessioni. Per quanto concerne la scelta dei materiali la dicotomia qui in vigore, quasi una manichea ripartizione, rimanda ad universo governato dal principio binario del ferro e del cemento, quest’ultimo individuato come il centro pulsante, il cuore, il sostentamento linfatico dell’industrialesimo (non è un refuso: s’intende il feudalesimo odierno)”.