Abbiamo appreso tutto, o quasi, del Covid da esperti che reciprocamente si smentivano. La pandemia ha trasformato ricercatori in comunicatori. L’opinione pubblica ha cercato in loro risposte definitive che non erano in grado di dare, ma la cui indeterminatezza è stata mutata in certezza passando di bocca in bocca. Perciò gli autori di questo “manifesto” definiscono la pandemia come “il più colossale esperimento di comunicazione scientifica”.
Bisogna prendere coscienza che la scienza è fallibile e limitata, dicono. Ha comunque una responsabilità verso i cittadini che si esprime nella comunicare le informazioni.
Riallacciandosi non solo all’esperienza della pandemia, gli autori sostengono che la conoscenza scientifica non ha la pretesa di attingere a un sapere assoluto e immutabile. Rimane sempre un margine più o meno ampio di indeterminatezza. Nella filosofia della scienza il principio di falsificabilità di Popper, secondo cui una teoria ha valore scientifico se può essere smentita da verifiche successive, fonda il progresso del sapere, ma introduce un principio di indeterminatezza. La scienza non porterebbe a un sapere definitivo, ma sempre relativo a strumenti e contesti in cui avviene l’esperienza.
In termini di opinione pubblica però questa linea di pensiero apre a una pericolosa sfiducia a cui gli autori intendono replicare. Sostenere la non definitività del sapere scientifico significa riconoscere la complessità di qualsiasi campo di ricerca che implica competenze molto diversificate con ricadute altrettanto varie. Le informazioni fornite non possono quindi essere onnicomprensive, ma sempre e solo espresse relativamente a un ambito di indagine.
L’incertezza scientifica diventa problema di comunicazione perché l’opinione pubblica si sente smarrita in questa situazione. Può dare spazio a teorie senza fondamento: negazionisti o complottisti in tempi di pandemia ne sono esempi. La “crisi del pensiero scientifico” incombe corroborata da devianze personalistiche di alcuni, oltre a interessi economici o ideologici. Di qui la necessità per la scienza di recuperare qualità e credibilità attraverso “principi di trasparenza, di chiarificazione delle incertezze, di accessibilità dei dati e di discussione aperta delle alternative”.
Peraltro è altrettanto certa la responsabilità morale dell’informazione scientifica: “l’accesso più ampio possibile alla conoscenza viene sancito come elemento indispensabile per la libertà di pensiero”. La complessità del sapere può però limitare la sua democraticità. Gli esperti ne diventano i gestori e “da autorevole, la scienza rischia di diventare autoritaria”. L’autoreferenzialità della scienza è un pericolo per lo stesso sapere tanto più se entra in simbiosi col potere politico o economico.
Per questo il libro è un “manifesto”, cioè l’esposizione di linee di principio per una scienza che si integri con la società. La sua responsabilità non si ferma alla ricerca. Chiama in causa la comunicazione, cioè il ponte verso la comunità umana che gode di un “diritto di cittadinanza scientifica” espressa nelle forme di attivismo, nelle valutazioni sulle linee dei governi, nella consapevolezza delle scelte individuali.
Manifesto per un’educazione civica alla scienza
di Nico Pitrelli, Mariachiara Tallacchini
Editrice Codice
18 euro