Probabilmente l’origine anglosassone della parola “rugby” fa storcere il naso a intellettuali e gerarchi del regime fascista. Quindi finisce nel tritacarne dell’autarchia linguistica, anche se, a dir il vero, ne esce neppure molto malconcia. Se non basta sostituire l’ultima lettera con la più italiana “i”, diventa lo sport della palla ovale, escludendo comunque ogni concessione alle origini inglesi.
Lo studio di Marco Ruzzi approfondisce la relazione tra il Fascismo e uno sport che cerca di farsi strada. Necessaria l’introduzione storica, a sottolineare le prime manifestazioni agonistiche e i debiti con la tradizione rugbistica inglese e francese. Le prime partite ufficiali risalgono al 1910, ma la guerra mondiale segna anche per il rugby una battuta d’arresto.
Il cammino è ripreso negli anni Venti, quando lo sport deve fare i conti col nuovo indirizzo politico. Così se da un lato Ruzzi analizza l’aspetto prettamente sportivo dall’altro dedica un’ampia parte a coglierne i rapporti con l’ideologia e le forze politiche che ne sono espressione sia nel ventennio sia negli anni immediatamente successivi.
Nell’orizzonte del fascismo lo sport in genere viene ricompreso quale strumento di controllo delle masse oltre che rispondente a una cultura del fisico che si rispecchia nei campioni. Avendo chiaro l’obiettivo di “plasmare le nuove generazioni degli italiani”, l’intervento dello stato riporta l’attività sportiva nell’alveo del totalitarismo in linea con la gestione del tempo libero sottratta ad altre associazioni civili o di ispirazione religiosa.
Chiarito il contesto ideologico lo studio di Ruzzi sviluppa la storia del rugby italiano sia sul piano agonistico sia su quello organizzativo con la nascita di una Federazione e, dal 1934, il riconoscimento ufficiale della funzione educativa da parte del regime. Nonostante ciò le difficoltà ci sono, specie per “il basso tasso di qualità” di squadre e allenatori. Serve inoltre un intenso lavoro di diffusione di questa pratica sportiva oltre che della sua pubblicizzazione per attirare nuovi appassionati sugli spalti. Aspetto quest’ultimo che vede nel successo del calcio un forte concorrente e costringe il rugby a “pratica minoritaria”. Anche per questo il rugby è all’inizio “temporaneamente parcheggiato, in attesa di vedere se e in quale misura avrà successo l’esperimento di diffusione”.
Da osservata speciale, l’attività rugbistica vive i suoi alti e bassi di vicinanza al regime attento alle manifestazioni “oceaniche” più che al senso della pratica sportiva, tanto più che il confronto con le rappresentanze straniere, francesi e tedesche in particolare, non porta con sé risultati esaltanti. Questa “superficialità” di rapporti consente all’autore una lucida conclusione sintetica: “Il rugby è fascista nella misura in cui questo permetta di giocare e far giocare, ma senza particolari concessioni all’ideologia”.
Il volume viene presentato sabato 2 aprile alle 17 nella sala polivalente del Cdt, Largo Barale con Stefano Pivato, Vittorio Sommacal, Gigi Garelli, Ezio Bernardi.
Generazioni littoriali
di Marco Ruzzi
Primalpe
23 euro