“Un senso di desolazione, di arido quale mai avrei potuto immaginare” è la prima sensazione che Renzo Wiechmann prova quando l’aereo sta per toccare il suolo della Marmarica, regione a cavallo tra Libia ed Egitto. È il 1942: lui, ufficiale medico, è partito da Lecce qualche ora prima per unirsi alle truppe italiane dislocate su quel territorio. È l’inizio del “Diario grande” che viene pubblicato a cura di Marco Ruzzi, insieme ad alcune lettere ai famigliari e alle Note di prigionia. In tutto si copre un periodo di cinque anni dall’arrivo fino al 1946 quando ha termine il duro tempo di detenzione in un campo francese.
Sono documenti preziosi, sottolinea Ruzzi, perché si aggiungono alle non molte testimonianze dirette disponibili per quei luoghi di guerra. Inoltre sono considerazioni sviluppate da un punto di vista particolare com’è quello di un ufficiale medico, quindi non immediatamente impegnato in azioni militari.
Anche per questo le considerazioni di Weichmann suonano prive di retorica, marcato invece da uno sguardo umano che si posa sulla propria esperienza. Quel senso di desolazione diventa presto il filo conduttore sotterraneo che informa di sé i fatti. Nasce dallo scarto tra la rappresentazione della vita sempre ancorata a dei riferimenti a cose note e la realtà di quella terra dove anche la vita appare impossibile. Sì, una terra brulla, ma pur sempre una cosa viva: qualche cammello, le colonne degli autocarri segni di una vita che invece risulta assente. Una terra dove sabbia e luce accecante sono l’ordito delle esperienze dei soldati: “ogni mia immaginazione sulla Marmarica fu frustrata”.
Con sfumature diverse questa frustrazione ricompare altrove. Nelle difficoltà di approvvigionamento, nell’impotenza nello svolgere il proprio compito, nella constatazione dell’inadeguatezza di mezzi e l’approssimazione dei ranghi superiori, soprattutto nel prendere le distanze dalla retorica di guerra, che non si accende però mai in polemica.
C’è un profondo senso di dignità e di consapevolezza nelle pagine che affrontano questi temi. Nonostante gli venga voglia di “vuotare il sacco”, non si sottrae a sincere considerazioni sui soldati: “ero venuto in Africa Settentrionale credendo in un esercito e mi sono accorto che esisteva solo nel cuore dei suoi soldati”. Non fa questione di eroismo, ma constata il loro senso del dovere che giustifica anche gli accenti fortemente critici con cui descrive la condizione nel campo di prigionia francese.
In tutto ciò Wiechmann si aggrappa al ricordo della famiglia: “non avrei mai creduto che il distacco fosse così doloroso”, annota subito. Sulla brandina gli vengono in soccorso gli occhi della figlioletta. La posta appare l’unico legame con un mondo in cui la vita ha contorni conosciuti e rassicuranti. Sono lettere piene di affetto, aperte su una dimensione intima.
Guerra e prigionia in Africa Settentrionale 1942-1946
a cura di Marco Ruzzi
Primalpe
10 euro