Onde evitare sbrigativi fraintendimenti l’autore al termine del breve saggio dal taglio giornalistico chiarisce che non è in questione l’importanza della ricerca scientifica per la vita sul nostro pianeta. È però giusto mettere altrettanto in chiaro quanto sulla scienza pesi il retaggio storico e politico del passato coloniale. Insomma è un invito implicito a riconoscere con onestà i debiti culturali che le nazioni potenti hanno contratto ormai da secoli con quelle su cui hanno spadroneggiato.
Il principio di fondo è che colonialismo non si è manifestato solo nella forma classica della depredazione. Ha invece preso forme ben più sottili che ancora oggi spesso non vengono riconosciute e alimentato un inespresso, ma chiaro concetto di superiorità culturale.
Per giungere a questa conclusione l’autore muove dal sottolineare la simbiosi che si è instaurata da sempre tra potere economico e politico e scienza. Una relazione pericolosa non sempre riconosciuta dagli stessi scienziati, ma fulcro di un preciso disegno di avidità.
Gli esempi storici poggiano sul riconoscimento di un sapere scientifico ampiamente diffuso a ogni latitudine seppure con manifestazioni e sistematizzazioni alquanto diverse. È il razionalismo europeo dell’epoca moderna a confinare le conoscenze i molti popoli nel terreno incero e scivoloso delle usanze tradizionali. Eppure, come dimostra l’autore, queste popolazioni hanno fornito nel tempo molte basi scientifiche al sapere dei colonizzatori.
L’autore ricorda il livello di conoscenze astronomiche dei popoli arabi quando ancora l’Europa discuteva intorno alla fondatezza del sistema tolemaico. Poi guarda allo sviluppo dei giardini botanici a partire dal XVIII secolo come il risultato dell’esigenza di studiare le specie per moltiplicare gli esemplari, in vista delle piantagioni, e migliorare gli incroci per massimizzare gli investimenti. Per tutti porta l’esempio del chinino: la sostanza, estratta dalla corteccia di un albero, era ampiamente conosciuta dalle popolazione latinoamericane per le sue proprietà curative. L’Europa se ne impossessa per sostenere l’ulteriore sviluppo coloniale nelle terre infestate dalla malaria.
Ce n’è anche per l’Italia fascista e per la più recente “fuga dei cervelli”. Comprensibile a livello individuale come ricerca non solo di uno spazio di ricerca, ma anche di un riconoscimento economico, a livello però di sistema non può che essere l’ennesima conferma di un colonialismo mascherato perché perpetua la condizione di subalternità dei paesi poveri.
Ovviamente compito dell’autore non è trovare una soluzione a simili questioni. Semmai, dice, è svelare “la struttura coloniale del pensiero, della burocrazia e della società” che ha il suo peso sulla comunità scientifica teoricamente interessata alla constatazione e spiegazione dei fatti, ma spesso inconsapevole ostaggio di ben altri interessi
La bianca scienza
Marco Boscolo
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