Nel linguaggio popolare «perdere la testa» per qualcuno equivale a innamorarsi.
Innamoramento che non rinnega il razionale, ma, almeno in una fase iniziale o in determinati momenti, lo oltrepassa.
Il credere, la sequela di Gesù è certamente una scelta ponderata. Il Maestro stesso lo chiede: «Chi di voi volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolare la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento?» (Lc 14,28). Ma il credere è anche l’incontro con una bellezza che incanta tanto che si può «perdere la testa» davanti a tale grandezza e non si sa quello che si dice e si dice quello che non si sa (vedi Pietro). È proprio il Maestro, infatti, che più volte ha dovuto sottolineare il realismo evangelico per riportare alla concretezza del vivere i discepoli rapiti ed incantati dalla sua ‘grandezza’, ai discepoli che non sempre sono riusciti a coniugare in Gesù la gloria del profeta con la dedizione del testimone.
Ad Abramo che faceva i conti con la propria vita e con un desiderio non realizzato, il Signore offre una promessa da «perdere la testa»: un suo figlio come erede. Il torpore che piombò su Abràm, unito ad un sentimento di paura, è forse il segno che certe cose belle della vita non sempre si raggiungono attraverso la nostra programmazione ma te le ritrovi come regali «divini» svegliandosi dal sonno.
«Guarda in cielo e conta le stelle, se sei in grado di contarle» dice il Signore ad Abramo. Il progetto di Dio è molto più grande delle attese del patriarca che dovrà fidarsi di quella promessa senza poterla prima verificare (contare). Solo perdendo in qualche modo il controllo di sé si può «vedere» la promessa divina.
Ed il controllo della situazione dovranno perderlo in qualche modo anche Pietro, Giacomo e Giovanni.
A metà del suo Vangelo Luca comincia a rilevare i primi segnali dell’insuccesso: le folle, prima entusiaste, abbandonano Gesù, i suoi nemici tramano per ucciderlo. E il Figlio prega per interrogarsi sul cammino che deve percorrere per rivelare il Padre. Nell’esperienza di preghiera sul monte compaiono anche Mosè ed Elia, simboli della Legge e dei Profeti. Tutti i libri sacri d’Israele sono orientati a Gesù. Nel giorno di Pasqua, per far capire ai discepoli il significato della sua morte, il Risorto ricorrerà a questi testi: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti – nota l’evangelista – spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui». Morire d’amore è il gesto più divino che si possa immaginare e la Scrittura non diceva altro da secoli.
La luce che svela a Gesù la sua missione arriva da lì: dalla Parola. È lì che egli ha capito che il Messia doveva soffrire molto, essere umiliato e rigettato dagli uomini, come è detto del servo del Signore (Is 53).
Pietro, Giacomo e Giovanni vedono la gloria luminosa del Maestro.
Che bello! Perché non fermarsi lì e prolungare la gioia sperimentata in quel momento? Quante volte per i discepoli, di ieri e di oggi, si è tentati di stare nella beanza di un incantesimo religioso avvolto solo da luci, senza farsi domande, senza lasciarsi toccare dagli interrogativi dell’umanità.
Ma la Scrittura, ancora una volta, ci avverte: la voce del divino risuona sempre per distoglierci da questi pensieri. La sequela di Gesù non si confonde con il riposo della coscienza.
«Ascoltate Lui» – dice la voce –.
Invito paradossale, che giunge in una delle scene in cui Gesù dice nulla. Quello che ci è chiesto di ascoltare non è tanto o solo il suo insegnamento, le sue parole, i suoi comandi, ma la sua storia, la sua intera vicenda. Ciò che ogni cristiano è chiamato ad ascoltare è una vita, un uomo, corpo e sangue.
Nella conclusione, il grande protagonista è il silenzio.
Gesù è solo e tace, i tre discepoli sono ammutoliti e non sanno raccontare a nessuno ciò che hanno visto. Luca descrive in filigrana un itinerario di maturazione dei discepoli, che passano da un parlare insensato (Pietro «non sapeva quello che diceva»), a un atteggiamento di ascolto, che li conduce sì a un silenzio adorante, ma che sapora anche di «messa in crisi»
Nei misteri di Dio non si sta seduti comodamente, in una logica/incantesimo luminoso senza ombre, senza domande, preoccupati di far quadrare tutto anche quando si è nel cuore dell’enigma.
Il compimento che la fede ci fa presentire sta già intorno a noi. Ma solo come una nube dove non possiamo tracciare troppi tragitti. Persino Paolo, che ha incontrato il Cristo per via, ricorda che se abbiamo una cittadinanza essa sta nei cieli.
Quello che per ora ci è dato è seguire il Figlio.