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Lunedì 3 marzo 2025

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Gioco di sguardi

Le nostre parole, i nostri gesti partono dal tesoro che custodiamo o meno nel cuore

Cuneo

La Guida - Gioco di sguardi
Sir 27,5-8; Sal 91; 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45.

 

Lo scrittore inglese Oscar Wilde diceva che «il nostro vizio supremo è essere superficiali».

Il non accorgerci della trave che è nel nostro occhio potrebbe essere uno dei segni di questo sguardo superficiale. Chissà perché ci perdiamo nel vedere l’ombra dell’altro invece della sua luce. Da dove viene questo gusto maligno di scovare e narrare i difetti altrui, di godere delle debolezze dell’altro?

Questo non è lo sguardo di Dio.

Gesù sapeva guardare in modo altro: in Simone intuisce la roccia, in Nicodemo vede del coraggio, nella donna adultera il bene che compirà perché conta di più del male presente ora.

Perché non ti accorgi, domanda il Signore, della trave che è nel tuo occhio?

Ogni discepolo è tentato dal non riconoscere le proprie incapacità, i propri errori, ed è abitato dalla pretesa di voler insegnare agli altri.

È più facile denunciare i peccati altrui, condannare con severità che fare un esame su se stessi e sul proprio comportamento.

Non è facile avere la capacità di autocritica, il saper riconoscere il male che ci abita, senza spiarlo morbosamente nell’altro.

Nella vita quotidiana della comunità cristiana si può essere chiamati a correggere il fratello perché questa è una necessità della vita comune: il camminare insieme comporta l’aiutarsi a vicenda, fino a correggersi.

Ma questo non può mai essere una condanna, la pretesa manifestazione di una verità che umilia, se no, anziché causare conversione, perdono e riconciliazione, produce divisione e inimicizia. Ciò che vediamo negli altri come «trave», lo sentiamo in noi come pagliuzza; ciò che condanniamo negli altri, lo scusiamo in noi stessi. Questa è «ipocrisia, falsità».

Il difetto dell’altro non mi dà forse tanto fastidio proprio perché è anche il mio? Il limite dell’altro non mi risulta tanto evidente semplicemente perché quella persona non la sopporto e così correggendola nello stesso tempo «amorevolmente» la si condanna?

Certo è che il volgere lo sguardo su noi stessi non deve diventare un alibi.

Il Maestro non chiede solo di togliere la trave dal proprio occhio: «togli prima…». Il vedere la propria trave non è un chiudere gli occhi sulla pagliuzza dell’altro; non è chiesto di cadere nel comodo: «Chi sono io per giudicare?».

Gesù vieta di giudicare, ma comanda di correggere! Lo sbarazzarsi della propria trave non è solo per vederci bene, ma anche perché così si riesce a liberare il fratello dalla sua pagliuzza. Il fine ultimo del lavoro su di se non siamo noi stessi, ma il fratello. Se non vuoi correggerti per il tuo bene, correggiti per il suo!

Allora si vedrà bene nell’umile sincerità di riconoscere la comune debolezza.

È necessaria una purificazione della vista e perché questo accada bisogna lavorare sul proprio cuore. Se l’occhio deve essere liberato da quel che lo offusca, tanto più deve esserlo il cuore; se l’occhio è sollecitato a riconoscere le proprie mancanze, tanto più deve farlo il cuore, poiché «la bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».

Le nostre parole, i nostri gesti partono dal tesoro che custodiamo o meno nel cuore, redendoci capaci di togliere la trave dal nostro occhio o di restare ciechi.

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