Il reato di truffa si può dire consumato se il presunto truffato si accorge delle manovre messe in atto a suo danno e decide di assecondarle per incastrare il truffatore? È la domanda che tutti si sono fatti seguendo lo svolgimento del processo a carico di Edoardo Sarica, residente in provincia di Reggio Calabria e accusato di truffa, che si è chiuso al tribunale di Cuneo. Presunta vittima una donna di Verzuolo, impiegata in una ditta agroalimentare, che nel pomeriggio di una giornata di fine agosto 2021 ricevette alcuni messaggi e varie telefonate dall’azienda fornitrice di energia elettrica. I messaggi dicevano che la donna doveva immediatamente pagare la bolletta arretrata da 168 euro pena l’avvio di un procedimento legale che le sarebbe costato un esborso molto più gravoso di 500 euro. La donna in quel momento era al lavoro nel settore macchine dell’azienda dove, per motivi di sicurezza era severamente vietato usare il telefono, e aveva solo potuto leggere il messaggio, preoccupandosi molto. Quando arrivò l’ennesima chiamata decise di rispondere facendo presente al suo interlocutore che si era presentato come avvocato dell’azienda elettrica, che erano le 17 e che non avrebbe potuto pagare in banca. A quel punto però il sedicente avvocato fece la proposta che mise in allarme la donna: “Mi disse che mi avrebbe mandato tramite Whatsapp gli estremi della sua Postepay su cui fare la ricarica e così fece andando dal tabaccaio appena uscita dal lavoro. Appena ricevuto lo scontrino del pagamento lo avvisai che avevo eseguito al ricarica e lui mi rispose dicendo che aveva ricevuto i soldi”. Quel messaggio e lo scontrino erano la prova che la donna portò ai Carabinieri il giorno dopo quando denunciò il suo truffatore: “Ho pagato per avere la prova della sua responsabilità, così non avrebbe potuto più truffare nessuno”, aveva riferito la donna alla giudice, dimostrando però in quel modo di non essere stata vittima dei raggiri e artifici dell’imputato, che dal suo canto venne subito individuato dagli inquirenti come l’intestarlo della carta Postepay e dell’utenza telefonica da cui erano partiti i messaggi per effettuare la ricarica. La donna venne risarcita integralmente dall’azienda elettrica (allarmata dal fatto che i dati dei clienti fossero finiti nella mani di un truffatore, che tra l’altro aveva chiamato utilizzando proprio l’utenza fissa dell’azienda elettrica), ma perse il lavoro: il suo principale infatti entrò nella sala macchine proprio mentre lei era al telefono, constatando la violazione del regolamento e non rinnovandole il contratto. Per il pubblico ministero quella emersa dal dibattimento non poteva essere definita una truffa e per questo aveva chiesto l’assoluzione dell’imputato cui si era associata la difesa. Non però per la giudice che riqualificando il reato in tentativo di truffa ha condannato l’imputato a sette mesi di reclusione.