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Mercoledì 18 dicembre 2024

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Vigile del fuoco si schiantò, assolto il gestore del bike park

L'incidente mortale avvenne il 3 ottobre 2021; secondo quanto emerso in giudizio, non ci fu negligenza né imperizia

Viola Saint Gréé

La Guida - Vigile del fuoco si schiantò, assolto il gestore del bike park

Si è concluso con l’assoluzione per non aver commesso il fatto il processo per omicidio colposo a carico di Fabrizio Raimondi, gestore del bike park di Viola Saint Gréé dove il 3 ottobre 2021 perse la vita Andrea Pastor, 38enne Vigile del fuoco ligure che urtò contro lo spigolo della rampa di discesa mentre affrontava un salto sul tracciato del Saltimbanco. L’accusa contestava al gestore del parco di non aver adottato le necessarie misure per prevenire i rischi connessi a quel tipo di ostacolo. Secondo l’accusa il gestore non aveva fornito adeguate informazioni ai ciclisti che volevano cimentarsi con questa forma più impegnativa di percorsi fuoristrada: sia dal punto di vista dell’equipaggiamento; sia della cartellonistica che avvisava dell’impegnativo salto sul tracciato del Saltimbanco; sia per quanto riguardava la realizzazione di quel salto, con due rampe rigide, una di salita e una di atterraggio, separate da un vuoto di circa tre metri, con materassi agganciati alla rampa di discesa che scendevano fino a terra in modo da attutire la caduta di chi non fosse arrivato dall’atra parte. Se ci fosse stata una passerella di collegamento fra le due rampe, questa la tesi dell’accusa, anche in caso di errore nell’impostazione della velocità o di frenata dettata da improvviso timore, il ciclista sarebbe atterrato sulla pista di collegamento senza danni. Andrea Pastor invece calcolò male la velocità da tenere, secondo il perito dell’accusa 19 km orari a fronte di una velocità necessaria di 27-28 km orari e andò a sbattere proprio all’intersezione tra la rampa e il suo montante verticale. All’incidente assistette uno dei quattro amici che quel giorno avevano trascorso la mattinata percorrendo i cinque tracciati che offriva il parco. Lui aveva imboccato la cosiddetta “chicken line”, il percorso senza salto che correva proprio accanto a quello con l’ostacolo affrontato dalla vittima; urlò chiedendo soccorso per l’amico che non riusciva a respirare e vennero aiutati da una coppia di turisti che stava passeggiando lì vicino; la donna, di professione infermiera, praticò il massaggio cardiaco ma senza esito. Sul corpo di Andrea Pastor non venne eseguita l’autopsia e per questo, secondo il medico legale della difesa, non era stato possibile stabilire con certezza il tipo di lesioni, e quanto gravi, avevano provocato la morte dell’uomo. La difesa ha anche contestato tutto l’impianto accusatorio in merito alla negligenza del gestore sulle regole da seguire nell’affrontare quei ripidi percorsi in discesa su terreni sconnessi, fra radici, sassi e arbusti. Secondo gli avvocati Leonardo Roberi, Emanuele Rossi e Paolo Adriano, il regolamento sull’abbigliamento obbligatorio era esposto chiaramente nella postazione dove venivano fatti i biglietti di ingresso e la vittima indossava non solo il casco integrale ma anche la pettorina imbottita; anche la cartellonista era adeguata, un segnale grande, giallo con il simbolo di pericolo e l’immagine della rampa con il vuoto al centro e l’indicazione di affrontarlo a velocità adeguata: “Non velocemente come ha detto l’accusa – aveva ribattuto in aula l’avvocato Rossi – perché anche una eccessiva velocità poteva essere pericolosa; il salto andava studiato in modo da poterlo effettuare con velocità adeguata”. Per l’accusa sostenuta dalla dottoressa Rosati però c’erano stati episodi immediatamente precedenti alla caduta di Andrea Pastor che avrebbero dovuto indurre il gestore ad adottare misure adeguate a mettere in sicurezza quel salto. Ad agosto e poi appena quindici giorni prima di quel 3 ottobre, altri due ciclisti erano caduti sulla rampa del Saltimbanco, due ciclisti che frequentavano spesso quel bike park e conoscevano il salto: “Nonostante conoscessero quel salto avevano istintivamente toccato il freno ed erano caduti, questo perché un biker non professionista poteva spaventarsi di fronte a quel salto che una volta imboccato non offriva via d’uscita, niente ripensamenti; se ci fosse stata una tavola di collegamento in mezzo si sarebbe attutita la caduta”.
Per questo motivo l’accusa aveva chiesto la condanna di Raimondi a due anni di reclusione. Conclusione a cui si era associata l’avvocata Bianca Gasco di parte civile, per conto della moglie e del figlio del Vigile del fuoco, “avvennero due incidenti nel giro di pochi giorni prima di quello mortale di Pastor, era il gestore il responsabile della sicurezza, era in capo a lui decidere se mettere quel salto, come metterlo e come proteggere il cliente. E invece c’è stata negligenza, imprudenza e imperizia a 360 gradi”.
Per la difesa quel salto aperto, cioè senza rampa di collegamento era invece pacificamente ammesso nel downhill, presente anche in altri bike park in giro per l’Italia e all’estero, un salto visibile dalla seggiovia che saliva e dal bar posto in cima al percorso, in una posizione aperta, con il materasso per attutire la caduta. “Ci riserviamo di leggere la motivazione della sentenza – hanno commentato al termine dell’udienza gli avvocati Roberi, Rossi e Adriano – ma intanto esprimiamo soddisfazione per l’assoluzione. Il gestore della pista non può rispondere, se il percorso è sicuro, per il rischio tipico dello sport che l’utente affronta nel momento in cui decide di porre in essere un salto facoltativo. Salti ammessi dal regolamento, normalmente presenti nelle piste di downhill e nel caso di specie ben segnalato, visibile e protetto da materassi. È una vittoria per Viola Saint Gréé, per tutti i gestori e la disciplina sportiva in questione”.

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