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Martedì 26 novembre 2024

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Cuneo, una donna a processo per maltrattamenti sul posto di lavoro

Nel punto vendita un clima di intimidazione continua e frustrazione causato dalla direttrice, fino agli antidepressivi e a un tentativo di suicidio sventato dal marito dell'addetta

Cuneo

La Guida - Cuneo, una donna a processo per maltrattamenti sul posto di lavoro

La goccia che fece traboccare il vaso fu una tabella oraria che le imponeva di svolgere le quattro ore del suo part time spezzettate fra mattina e pomeriggio, in un reparto per il quale tra l’altro non aveva il titolo necessario e che quindi svolgeva con un senso di inadeguatezza perché impossibilitata a rispondere alle richieste dei clienti; quando tornò a casa in un profondo stato di agitazione e di nervosismo, tentò un gesto anticonservativo. Prima di arrivare a questo drammatico esito nell’ottobre 2021, fortunatamente sventato dal tempestivo intervento del marito, l’impiegata di un grande centro commerciale cuneese avrebbe subito mesi di vessazioni, insulti e ritorsioni per comportamenti che la nuova direttrice giudicava sbagliati. Ora quest’ultima donna è a processo con l’accusa di maltrattamenti.
“Ero alle casse e al box informazioni con un ruolo di responsabile perché amo il mio lavoro e l’ho sempre fatto nel migliore dei modi”. Da quando la nuova direttrice aveva assunto la guida del centro commerciale erano però iniziati i problemi con lei e con molti altri colleghi: “Mi portava a credere che fossi sbagliata, mi faceva sentire piccola e umiliata”. Poi c’erano le ingiurie, contro il collega sindacalista che lei definiva ‘faccia di m…, non mettetelo più con la faccia rivolta verso di me’ o la collega molto magra che veniva sempre chiamata ‘la secca’. “Diceva che eravamo dei dementi, dei falliti che non sapevano fare il loro lavoro – ha raccontato la donna in aula -. In molti si sono dimessi e ogni volta che uno lasciava lei diceva che un’altra mela marcia era stata fatta fuori”.
C’erano poi le velate minacce, come quella fatta riferire dai capireparto che tutti i dipendenti avrebbero dovuto servirsi in un determinato bar del centro commerciale, “altrimenti saremmo finiti a fare tutti i turni di domenica o quelli serali della chiusura. La stessa pressione per farci prendere la carta prepagata per fare la spesa al centro commerciale. Io non la volli, non volevo sentirmi obbligata a fare la spesa dove diceva lei e i capi reparto vennero a dirci che avremmo dovuto farla lo stesso sennò…”.
Forse questo atteggiamento non remissivo, oppure il fatto che si fosse iscritta al sindacato per cercare di trovare una soluzione a quell’atmosfera di tensione che si era creata fra i dipendenti, la portò a dover accettare spostamenti di reparto, anche in luoghi per i quali lei non era titolata, con un crescente senso di inadeguatezza e di frustrazione. A giugno venne ripresa perché aveva lasciato la postazione alla cassa, in quel momento senza clienti, per smaltire il lavoro che intanto si era creata al box informazioni: “Aveva detto a una collega di darmi il cambio e pretendeva che stessi in cassa anche se non c’erano clienti. Per lei stare in cassa era una punizione, spesso diceva ‘quella la faccio morire in cassa’ o frasi simili”.
Un clima di paura e disagio che aveva indotto molti colleghi a licenziarsi e quelli rimasti a non avere il coraggio di sottoscrivere una lettera di proteste da presentare tramite il sindacato o a non partecipare allo sciopero indetto quando si era diffusa la notizia del suo ricovero in ospedale. “Prima di allora non avevo mai preso antidepressivi, ma da giugno a ottobre non riuscivo più a dormire, a casa piangevo in continuazione, alcuni miei colleghi prendevano i calmanti prima di iniziare il turno”. Al processo la donna si è costituita parte civile e con lei la Cisl. L’udienza è stata rinviata per ascoltare i testimoni dell’accusa.

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