Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37
«Raccontavano i rabbini che, in una notte oscura, un uomo accese una lampada, ma il vento la spense. La accese una seconda volta e poi una terza, ma di nuovo fu spenta. Allora disse: “Aspetterò che sorga il sole”. Allo stesso modo Israele fu salvato dall’Egitto, ma la sua libertà fu spenta dai Babilonesi; venne salvato di nuovo, ma fu subito oppresso dai Medi, dai Persiani e dai Greci. Allora disse: “Attenderò il sole, il regno del Messia”».
La prima lettura parla di questa attesa.
Alcuni versetti precedenti quelli che la liturgia ci propone in questa solennità, il profeta Daniele parla di una drammatica visione: dall’oceano emergono quattro enormi belve, un leone, un orso, un leopardo e una quarta bestia spaventosa che stritola ogni cosa con i suoi denti di ferro.
Le figure rappresentano i quattro grandi imperi che hanno oppresso Israele: il leone, Babilonia; l’orso, i Medi; il leopardo, i Persiani, imperi che scrutano in ogni direzione in cerca di preda; la quarta bestia, il regno di Alessandro Magno e i suoi successori. Quando il libro di Daniele viene scritto, al potere c’è Antioco IV.
La storia d’Israele è stata un susseguirsi di regni crudeli e impietosi con i deboli.
Regni che si sono comportati da bestie. Tutti venti, per stare al racconto rabbinico iniziale, che hanno spento la lampada.
Ma il veggente, contemplando il cielo vede che a queste bestie viene tolto il potere e l’ultima uccisa, fatta a pezzi e gettata nel fuoco.
Ed arrivando al brano di questa domenica, «ecco apparire uno simile ad un figlio d’uomo» al quale Dio affida il potere, la gloria ed il regno.
Dopo tante bestie, ecco finalmente comparire un uomo. Non viene dal mare come i quattro mostri, ma dal cielo, cioè da Dio.
Con questa visione, il profeta infonde speranza al popolo durante la persecuzione di Antioco IV.
Chi è questo «figlio d’uomo?».
Nel misterioso personaggio di cui parla Daniele vediamo i tratti del Messia atteso da Israele, che per i cristiani assume i contorni del «testimone fedele del Padre» (Ap 1,5), Gesù Cristo che si definisce come «il Figlio d’uomo che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Nei regni susseguitisi il forte ha soggiogato il debole, il ricco si è imposto al povero. Gesù, il Figlio dell’uomo, ha capovolto i valori ponendo al vertice non il potere, ma il servizio.
«Ecco il vostro re»: così Pilato indica Gesù coronato di spine e rivestito con il mantello di porpora. Proposta tanto assurda che provoca un rifiuto: «Via, via, crocifiggilo!». Un re così non lo vogliono nemmeno vedere, delude ogni attesa, è un insulto al buon senso.
«Il mio regno non è di qui» perché è «altrove», su un altro territorio, sulla croce: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Gesù afferma che il suo regno non è di qui, però rivendica pienamente la propria condizione regale: «Tu lo dici, io sono re».
È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
Gesù è lì, in alto, perché tutti lo possano contemplare; è in silenzio, non aggiunge una parola perché ha già spiegato tutto.
E più nessun vento spegnerà la lampada del Dio vivente: «L’Agnello che fu immolato è degno di ricevere onore, gloria e benedizione. Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare udii che dicevano: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”. E i quattro esseri viventi dicevano: “Amen”. E i vegliardi si prostrarono in adorazione» (Ap 5, 11-14).