È una prospettiva originale quella che Claudio Monge sceglie per rileggere il tema dell’ospitalità e dell’accoglienza. La ricerca sulla riflessione che le tre religioni monoteiste perseguono intorno al tema, non conduce a uno studio chiuso in se stesso, bensì apre a espliciti sviluppi etici e politici. Lo sguardo sulla cultura religiosa è finalizzato proprio a dare un significato all’accoglienza che si gioca non solo sul piano economico o politico, ma anche e soprattutto su quello “spirituale”.
A evitare una ricerca di pura esegesi ci pensa l’ultima parte. Appellandosi a un “supplemento d’anima in termini di relazioni umane e di riconosciuta dignità del bisognoso”, stabilisce una convergenza tra ricerca sulle fedi e il farsi prossimi. Dice l’autore: la relazione non è tema accidentale per l’uomo, ma costitutivo. In questa relazionalità si motiva la “stranierità” come condizione ontologica.
È un’idea che attribuisce al termine straniero una valenza positiva, identitaria. Esprime “l’irriducibilità all’altro”, essere cioè portatore di un’identità che è il presupposto dell’accoglienza e del riconoscimento dei diritti. Ospitalità presuppone l’alterità, vive di questa distanza che attende comunque di farsi incontro sul terreno dell’umanità. Babele, dice l’autore, è il mito dell’illusoria unità che si frantuma nella pluralità ristabilendo così il progetto originario basato sulla molteplicità. Una rilettura del mito che capovolge la prospettiva: da maledizione a richiamo al senso originario.
Concetti che trovano nella riflessione religiosa un terreno solido. Abramo accetta di essere sfrattato, di diventare straniero. Israele è straniero nella terra promessa e “l’osservanza della legge sociale diviene una sorta di memoriale della storia passata”. L’attenzione di Dio per gli stranieri si fa esortazione affinché si modelli il proprio comportamento su quello di Dio stesso. La motivazione teologica ispira il dovere dell’ospitalità.
L’autore accoglie il tema controverso della componente identitaria di Israele, ma lo legge in termini storici e in relazione a Dio. Così l’esclusività di questa relazione non è solo alla radice di una orgogliosa separazione, bensì lo elegge come fermento fra le nazioni richiedendogli di adeguarsi all’esempio di Dio.
Il cristianesimo prosegue su questa linea. Dio è ospite e ospitale. Accoglie gli uomini, specie i più deboli, ma anche chiede di essere accolto. Vive la “stranierità” che lo definisce come altro dall’uomo e come tensione verso la relazione con l’uomo. Quel “supplemento d’anima” da riconoscere all’ospitalità è argine alle conseguenze della sua istituzionalizzazione. Questa conduce a un “indebolimento della disponibilità individuale”, deresponsabilizzazione circa il carico di servizio, delega che coincide con il ritrarsi dell’impegno del singolo. Non sfugge poi il rischio di “spiritualizzare troppo l’appello alla solidarietà” confondendo ospitalità e carità come virtù teologale.
Dal ripensare l’alterità si fonda l’ospitalità che apre alla “teologia del pluralismo religioso”, cioè “una giusta presa di distanza dalle proprie convinzioni” per favorire il dialogo. Atteggiamento che informa le relazioni sociali dove la gratuità è stata soppiantata dal diritto. Senza nulla togliere a quest’ultimo termine, l’autore aderisce perfettamente alla riflessione di Enzo Bianchi nella prefazione: “stiamo smarrendo un’antica consuetudine presente in tutte le culture come dovere sacro, mentre il mercato si è impadronito anche dell’ospitalità”.
Per una teologia dell’ospitalità
di Claudio Monge
Editrice TS edizioni
euro 29,90