«Bisogna starci dentro nelle carceri, bisogna aver visto». Così il giurista Piero Calamandrei, padre costituente e parlamentare della Repubblica, interveniva nel 1948 sulla previsione di spesa del Ministero di Grazia e Giustizia dopo aver visitato le patrie galere denunciandone già allora la situazione drammatica, non molto lontana da quella attuale. Anche quella di quest’anno è stata un’estate calda nelle carceri italiane, che appaiono sempre più una polveriera: l’ultimo suicidio nel carcere di Reggio Emilia a fine agosto ha portato a 67 il numero dei reclusi che si sono tolti la vita nel 2024 dietro le sbarre, ad essi si devono aggiungere 7 agenti penitenziari.
Carceri. Sovraffollamento alla radice di disordini, evasioni e suicidi
Le cronache hanno anche dato notizia di disordini, gli ennesimi, e di tentate evasioni al carcere minorile Beccaria di Milano, mentre per il Lorusso e Cutugno di Torino il ministro della Giustizia Nordio ha assicurato a metà luglio con una lettera al sindaco Stefano Lo Russo il “massimo sforzo” per alleviare il drammatico sovraffollamento e i disagi dei reclusi e del personale di sorveglianza. Il Comune ha proposto la costruzione di un nuovo penitenziario da affiancare a quello delle Vallette.
Decreto legge n. 92 sulle carceri. Riforma che non risolve
Il controverso decreto legge n. 92 sulle carceri, convertito in legge dalla Camera dei Deputati prima della pausa estiva (153 sì, 89 no e un astenuto), per chi conosce da «dentro» gli istituti penitenziari sembra non cogliere l’urgente concretezza dei problemi. Per risollevare un sistema che tra sovraffollamento, suicidi, carenza di personale e strutture obsolete è al collasso.
Carceri. Il parere di Ennio Tomaselli, magistrato in pensione
Ne parliamo con Ennio Tomaselli, magistrato in pensione, che per molti anni è «stato dentro» anche nelle carceri torinesi nell’ambito di un’esperienza complessiva e variegata, come giudice e pubblico ministero.
Dottor Tomaselli, la nuova legge, come ha più volte sottolineato il guardasigilli Carlo Nordio, intende “umanizzare” le nostre galere la cui situazione è al collasso.
Secondo la sua lunga esperienza di magistrato nella giustizia ordinaria e in quella minorile, cosa non ha funzionato nel nostro sistema carcerario se i nostri penitenziari sono diventati «disumani»?
Carceri come luoghi di segregazione
Ritengo che non abbia funzionato l’ottica con cui, per decenni, la politica, l’amministrazione e parte dell’opinione pubblica, spesso non correttamente informata o condizionata da messaggi distorti, hanno considerato le carceri. Luoghi di segregazione, separazione, espiazione di una pena “da scontare fino all’ultimo giorno” in base a un’equivoca nozione di certezza della pena. Luoghi che si finiva per riempire il più possibile, anche quando la capienza fissata era ampiamente superata, perché i circuiti di uscita sono, necessariamente, assai meno rapidi da percorrere.
Carceri. Carenza di spazi, di personale e di mezzi
Ciò, in generale, non per prese di posizione negative della magistratura di sorveglianza (che è sensibile e segnala, tra l’altro, l’insufficienza dei propri organici), ma perché quei percorsi richiedono una messa di campo di uomini e mezzi ˗ per verifiche, progetti, individuazione e realizzazione di alternative al carcere ˗ che è stata gravemente carente.
Carceri. La riforma non incide sul sovraffollamento
La nuova legge prevede tra l’altro l’assunzione di mille agenti penitenziari, procedure più snelle per chi ha diritto alla scarcerazione, più telefonate per i ristretti con i famigliari, più comunità per la detenzione domiciliare ma anche la costruzione di nuovi istituti. Bastano questi provvedimenti per far fronte al sovraffollamento che, superando il 130%, è una delle criticità maggiori dei nostri penitenziari?
Ritengo, in linea con l’opinione di molti, che le misure in questione, magari condivisibili singolarmente, non siano tali da incidere significativamente su un sovraffollamento che, per quanto detto, è strutturale.
Carceri. Lo stillicidio insopportabile dei suicidi
Più volte in questi mesi il Presidente Mattarella di fronte allo “stillicidio insopportabile” dei suicidi in carcere ha invitato il Governo a mettere in atto misure di prevenzione per fermare questa piaga. La nuova normativa va in questa direzione?
Temo che, al di là delle intenzioni del Parlamento che l’ha approvata, la nuova normativa rischi di essere poco efficace anche rispetto a questo tragico aspetto della questione. Credo, anche in base alle cronache di questi suicidi, che spesso vengono definiti morti annunciate e che hanno riguardato persone in situazioni e condizioni anche molto varie, che possano essere prevenuti efficacemente solo se, nell’ambito di una complessiva “strategia dell’attenzione” alle situazioni delle carceri, vi è un analogo atteggiamento rispetto a quelle delle persone. Ciascuna ha esigenze specifiche che possono essere comprese e in qualche modo soddisfatte solo se gli operatori (aree educativa, sanitaria…) sono davvero in numero e con strumenti tali da poter svolgere efficacemente il loro lavoro.
Più formazione nelle carceri per combattere le recidive
L’art. 27 della nostra Costituzione raccomanda che «le pene devono tendere alla rieducazione» ma il tasso di recidiva in Italia sfiora il 70% mentre, laddove si mettono in atto attività formative (scuola, formazione professionale, inserimenti lavorativi), la recidiva crolla al 2%. Cosa prevede la nuova legge perché, come ha detto Mattarella. le “carceri non si trasformino in palestre criminali”?
L’obiettivo indicato dal Presidente della Repubblica è fuori dalla portata di una legge che si occupa solo in parte di carceri e ha contenuti molto eterogenei. Misure quali quelle già citate, ma anche altre (ad esempio un elenco delle strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento dei detenuti), sono utili solo a medio-lungo termine. Non incidono più di tanto e con la necessaria urgenza sulla quotidianità della vita delle carceri che, se sovraffollate da persone tenute inattive e non seguite adeguatamente sotto alcun profilo, non potranno che continuare ad essere nella situazione stigmatizzata da Mattarella.
Per i minori autori di reati non occorre il carcere, ma comunità, case famiglia e prescrizioni
Circa il 30% dei detenuti in Italia è in carcere su misura cautelare, il che è particolarmente preoccupante per i minori, la cui carcerazione, secondo il nostro ordinamento, dovrebbe essere l’extrema ratio. Invece dopo il Decreto Caivano gli Ipm (Istituti penitenziari minorili) hanno registrato un incremento di arresti. Secondo lei cosa sarebbe necessario per non riempire le carceri di minori e giovani, ma offrire loro opportunità di rieducazione?
Rispetto ai minorenni autori di reati la legge esige una risposta individualizzata, in cui il carcere sia davvero una soluzione estrema e, quando praticata, il più possibile temporanea. Se esso diventa, invece, routine o quasi, “parcheggio” anche per reati di contenuta gravità. E non vi sono operatori in grado di operare efficacemente e tempestivamente per misure cautelari meno gravi e più elastiche (comunità, permanenza in casa/casa famiglia, prescrizioni), eventualmente abbinate a provvedimenti civili, il rischio, già concretatosi in alcuni casi di cui si sono occupate le cronache, è che il carcere “esploda” in tutti i sensi. Un carcere per giovanissimi, o comunque giovani, spesso di provenienze molto diverse e senza una famiglia adeguata, è una struttura molto complessa da gestire, al di là dei numeri, che sono ridotti rispetto a quelli delle carceri per adulti ma non sono tutto.
26 bambini in carcere con le mamme detenute. Esperienza che segna per tutta la vita
Un’altra criticità delle nostre carceri è la presenza dietro le sbarre di 26 bambini reclusi con le loro mamme detenute. Secondo lei la nuova legge – in un sistema come il nostro dove mancano comunità di accoglienza per le misure alternative o la messa in prova – tiene conto che un minore che vive i primi anni di vita in carcere sarà segnato per tutta la vita?
È un altro, grave, problema di vecchia data e, più che mai, non sono i numeri che possono farlo ritenere secondario. Molte voci si sono già espresse criticamente. Su queste premesse, rispondo sinteticamente: non credo che si tenga conto adeguatamente di quanto pesa e peserà per un bambino piccolo trascorrere in un ambiente come quello carcerario anni, o anche solo mesi, di vita. Un ricordo: nell’estate del 1979 entrai per la prima volta in un carcere, Le Nuove di Torino, avendo assunto le funzioni di magistrato da pochi mesi e per sostituire un collega. Mi colpì in modo particolare la Sezione femminile, dove c’erano diverse madri con i loro bambini. Situazioni che, da fuori, erano e sono difficilmente percepibili.
Il carcere non deve essere una “discarica sociale”
La legge appena approvata non convince numerosi addetti ai lavori dell’amministrazione carceraria ma anche magistrati, avvocati e garanti dei detenuti, educatori, psicologi e medici (figure in forte carenza di organico nelle carceri). Secondo la sua esperienza, di cosa ha bisogno il nostro Paese per dare la possibilità a chi ha commesso un reato di ricostruirsi una vita durante il tempo della detenzione e, una volta fuori, inserirsi nella società senza il rischio di ritornare in carcere?
Mi riporto a quanto già detto e aggiungo che solo un carcere che non sia una “discarica sociale” (richiamo un’espressione usata spesso) e che sia invece strutturato, fisicamente e programmaticamente, per accogliere persone su cui lavorare, non solo per contenerle ma per gestirle in una prospettiva più ampia e rivolta al futuro, può svolgere degnamente il compito riabilitativo assegnato ad esso dalla Costituzione.