Lasciando liberamente risuonare il titolo che l’autore ha voluto dare alla sua esperienza di insegnante nel mondo carcerario torinese si può cogliere una significativa ricchezza di senso nella forma avverbiale “dentro”.
Parlando di carcere viene quasi spontaneo abbracciare la versione più immediata, non priva di sfumature gergali, che identifica il luogo, vale a dire un maestro all’interno di un luogo per definizione chiuso, capace di assorbire la persona.
Poi però quel “dentro” interpella la stessa persona del maestro. Avere esperienza di quel luogo chiede all’autore di “essere” maestro, cioè figura “significativa” per i ragazzi e gli adulti che incontra. Un’esperienza dunque da interiorizzare, da vivere dentro, appunto.
Una consapevolezza che si esprime anche, per così dire, a fior di pelle nell’esperienza che si trova a fare l’autore fresco di incarico nel percorso di avvicinamento a questa realtà. In tale cammino Mario Tagliani parte da lontano, dalla sua formazione di giovane “affamato di novità”, che si butta nel mondo della scuola non senza una certa dose di incoscienza. Presentatosi per prendere servizio, si ritrova avviato a un posto di lavoro inatteso quale il Ferrante Aporti. È qui che la manovra di avvicinamento si materializza in un lungo muro alto e grigio sormontato da una rete metallica la quale, confessa, fa “ribollire un’angoscia che ci si porta addosso fino a casa”.
Poi arriva “dentro”, entra nel carcere e vede quello stesso muro dall’altra parte. Fa da “sfondo sbagliato” a una scenografia “che altrimenti sarebbe potuta apparire perfetta” fatta di un prato e una partita di calcio tra ragazzi. Questa prima esperienza dell’ambiente continua senza particolari scossoni anche quando subito dopo entra nei corridoi per raggiungere la direzione.
Arriva il primo “vero” giorno di scuola. Si apre il portone e quello che prima era solo un lungo corridoio, ora è popolato di ragazzi. Se l’iniziale contatto con l’ambiente concedeva spazio a qualche pensiero, ora la nuova esperienza mette a nudo il maestro: da osservatore a osservato. Il consiglio del giorno prima, “scordati di fare il maestro, qui devi essere il maestro”, ora si presenta in tutta la sua essenziale concretezza.
Di qui muove il racconto di Mario Tagliani che è cronaca pacata, ma profondamente umana di relazioni da intessere e da coltivare. Matura subito la consapevolezza che il suo ruolo non è quello di insegnare quanto quello di “portare qualcosa di diverso dalla routine quotidiana, qualcosa di vivo e stimolante per loro”. Sono ragazzi “che non hanno una voce dentro”. Torna quell’avverbio di luogo che ora esplicitamente volge lo sguardo alla dimensione interiore tutta da ricostruire in una nuova dimensione.
La logica che impera è cruda e non lascia spazio a illusioni: “meglio vivere alla grande pochi attimi che fare una vita di stenti”. Logica da smontare, anzitutto proponendo alternative possibili.
Inutile cercare di scardinarla da fuori, bisogna stare accanto. Non c’è tempo per programmare. In carcere bisogna cogliere l’attimo, l’occasione per aprire un dialogo, rispondere a delle attese che altrimenti sfumano.
In simile contesto l’insegnare diventa anzitutto un educare a “vivere ogni momento non come sospensione della vita” e forse arriverà anche il momento di prendere in mano un libro e un quaderno.
Il maestro dentro
Mario Tagliani
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14 euro