Nelle settimane scorse sono state depositate le motivazioni con cui i giudici della Corte d’Appello di Torino hanno confermato l’assoluzione di Carlo De Benedetti, denunciato dal ministro Matteo Salvini in seguito alle affermazioni che l’imprenditore aveva espresso nel corso di un’intervista rilasciata al Festival dei Nuovi Media di Dogliani il 6 maggio 2018. In quell’occasione, rispondendo alle domande di Lilli Gruber, l’imprenditore aveva definito Salvini “xenofobo, antisemita, antieuropeo, festeggia Orban in Ungheria, è finanziato da Putin, insomma uno da cui tenersi lontano”. Dichiarazioni che gli valsero la denuncia per diffamazione presso il tribunale di Cuneo dove si svolse il processo, al termine del quale la giudice Emanuela Dufour aveva emesso la sentenza di assoluzione perché il fatto non costituiva reato. Sentenza confermata a febbraio scorso dai giudici della Corte d’Appello e di cui nel mese di agosto sono state depositate le motivazioni che ribadiscono quanto già espresso dalla giudice di primo grado. In primo grado l’accusa come il pubblico ministero Attilio Offman aveva chiesto una condanna a 800 euro di multa poiché “non c’era una base fattuale in quel giudizio di valore che risultò essere solo infamante”. Dello stesso avviso la parte civile con l’avvocato Claudia Eccher che chiese un risarcimento di 100.000 euro e che nella sua arringa aveva sottolineato l’offensività di quella frase “con un’accusa di antisemitismo infamante e con una rilevanza sociale pregiudizievole e spregiativa in modo assoluto”. Di critica politica avevano invece parlato i due difensori Marco Ivaldi ed Elisabetta Rubini, sottolineando come l’oggetto del processo non fosse una critica a Salvini come persona ma come politico. In questo contesto di critica politica, secondo i due difensori “non si pone un giudizio di veridicità ma una base fattuale e infatti a tutte le domande che gli erano state poste, De Benedetti aveva risposto facendo riferimenti a fatti politici”. Il riferimento fattuale per De Benedetti, come spiegato durante quell’intervista, erano i manifesti affissi a Milano da gruppi di estrema destra politicamente vicini a Salvini, in cui appariva la sua faccia e si diceva che lui finanziava i barconi dei migranti perché così poi votavano Pd. Parole che, si legge nella sentenza della dottoressa Dufour, De Benedetti aveva interpretato come un’accusa a sé in quanto proveniente da una famiglia di origini ebraiche e perciò oggetto di avversione di tipo etnico. Esaminate in questo contesto quindi le parole pronunciate da De Benedetti, si legge ancora nella sentenza, rientrano ampiamente nell’esercizio del diritto di critica politica, la quale, secondo quanto espresso dalla Corte di Cassazione “ha per sua natura un carattere congetturale in quanto espressione di carattere meramente soggettiva”. Dopo il pronunciamento della sentenza, a marzo 2022, l’avvocato di parte civile Claudia Eccher aveva parlato di “sentenza politica e potenzialmente pericolosa”. Un attacco a cui la giunta distrettuale regionale dell’Associazione Nazionale Magistrati rispose quando vennero depositate le motivazioni della decisione, ribadendo l’indipendenza e l’autonomia di giudizio della collega nella sua motivazione “ampia, dettagliata, argomentata diffusamente e specificamente, espressiva dell’impegno, della professionalità e dell’assoluta terzietà della dottoressa Dufour, che da sempre ha dimostrato di non voler essere ricondotta direttamente o indirettamente a qualsiasi fazione politica”. Ora anche la Corte d’Appello ha confermato il giudizio di primo grado, ribadendo che quei fatti – l’affissione di manifesti da parte di una forza politica di estrema destra vicina al movimento guidato da Salvini – avevano indotto De Benedetti alla “formazione di una convinzione personale e di una critica alle scelte politiche operate dalla parte offesa”. Quelle circostanze, insomma, “rendevano possibile per l’imputato formarsi la ragionevole e giustificabile convinzione della condivisione da parte della parte offesa di quella contrarietà agli ebrei ‘riconducibile’ a movimenti con cui era stata manifestata una certa vicinanza” e che quindi quelle affermazioni non potevano essere sottoposte al vaglio giudiziale del vero o falso, trattandosi di un’opinione personale che non può assumere natura obiettiva.