Al domani dedica una paginetta scarsa, ma carica di speranza “Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà” (Apocalisse 22,5).
Don Severino Dianich nel suo ultimo libro “Troppo breve il mio secolo”, (edito da San Paolo) che non è una autobiografia, ma la condivisione delle sue memorie, con eventi personali e collettivi lungo ottant’anni di vita dopo aver raggiunto l’uso della ragione, ripercorre la storia del XX secolo letto dagli occhi attenti e acuti di un grande teologo.
Testimone del Concilio Vaticano II, oggi rimarca: “Il Signore è capace di far nascere improvvisamente qualcosa di nuovo. Nella storia della Chiesa – ricorda – ci sono stati momenti di crisi peggiori del nostro tempo, ma il fiume sotterraneo, la forza del Vangelo ad un certo punto rompe la crosta ed emerge. Abbiamo esempi di persone meravigliose, dobbiamo ringraziare il Signore e tirarne fuori un po’ di coraggio perché ciascuno, per quel che può, metta la sua parte per migliorare il mondo”.
Nel libro cita papa Montini quando nel 1962 poneva due domande: che cosa è la Chiesa? Cosa fa la Chiesa? A questi stessi quesiti Dianich oggi risponde: “la Chiesa è voluta da Gesù Cristo perché la sua memoria e la sua missione si perpetuino nel mondo e gli uomini trovino nella Chiesa un luogo di comunione, di salvezza di fronte a Dio. Ciò che il concilio mi pare non aveva ancora davanti a sé presente e che invece sta diventando ora prepotente è il bisogno di ritornare al cuore della sua missione, cioè la diffusione della fede. Oggi sta emergendo sempre di più il problema centrale della Chiesa che è il poter conservare nel mondo la fede in Gesù e poterlo far conoscere e diffondere”.
Sfogliando le pagine attraverso i ricordi dell’autore si compie quasi il giro del mondo, ne merge un teologo ‘giramondo’, “gli inviti venivano – conferma – e si presentavano le richieste del mio servizio che facevo con gioia e soddisfazione”.
Maestro di fede e di vita per tante persone, per lui il primo maestro (di tanti) è stato Don Alberto Cvecich, il cappellano della sua parrocchia a Fiume, “fu lui a fare da intermediario per farmi venire a Pisa dal campo profughi di Gaeta dove ero con la mia famiglia durante l’esodo. Un prete molto colto e aperto” rimarca. Ha ancora impresso nella memoria il suo primo ricordo di bambino: la dichiarazione di guerra di Mussolini. Poi nella sua vita la guerra l’ha intercettata più volte e l’ha vissuta sulla sua pelle. A Gerusalemme è sfuggito per un soffio, miracolosamente ad un attentato. Oggi con la guerra alle porte dell’Europa e in tanti, troppi luoghi del pianeta riflette: “Ho una sensazione di desolazione per come l’uomo non impari dalla storia, perché in fondo le guerre di oggi hanno strumenti diversi per uccidere e farsi uccidere ma la logica rimane quella della preistoria: tu mi hai picchiato, io ti picchio e vediamo chi vince. Non c’è nulla di nuovo. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina – ricorda – e anche questa in Israele quello che mi ha dato, di giorno in giorno, un senso di indignazione è stato il modo con cui i media molte volte presentano gli orrori della guerra come se fossero una eccezione che non dovrebbero accadere durante un conflitto. La realtà è che la guerra è questa, è sempre stata questa. Lo stupro, la fine delle popolazioni strangolate dalla fame, i bambini uccisi… Non esiste un’altra guerra. E questo va detto ai giovani che si illudono che queste guerre siano brutte perché ci sono dei belligeranti particolarmente cattivi, ma non è così. Il mio sentimento dominante che mi sento di dover comunicare è questo, perché è pericolosissimo pensare che ci sia una guerra giusta o buona”.