Erano accusati di aver falsificato i documenti attestanti la provenienza dei cuccioli che vendevano tramite un sito Internet e di aver esercitato abusivamente la professione di veterinari inoculando personalmente vaccini ai cani; con quest’accusa erano finiti a processo i due allevatori fossanesi M. U. e M. F. e con loro anche i due veterinari S. B. e P. P. che tra il 2015 e il 2018 avevano avuto rapporti di lavoro con la coppia. Ai due professionisti erano contestati il reato di falso, per aver firmato le schede identificative risultate false e di favoreggiamento dell’esercizio abusivo della professione, per aver rilasciato alla coppia dei libretti sanitari in bianco riportanti solo la loro firma e timbro. A causa di questa collaborazione organica la Procura aveva contestato ai quattro anche il reato di associazione a delinquere, accusa risultata non provata dall’istruttoria e per la quale lo stesso pubblico ministero aveva chiesto l’assoluzione. Assoluzione per intervenuta prescrizione era stata chiesta anche per S. B., i cui rapporti di lavoro con i due allevatori si erano interrotti nel 2016. Per gli altri tre l’accusa aveva chiesto la condanna a due anni e sei mesi, a conclusione di una lunga istruttoria in cui decine e decine di acquirenti erano sfilati davanti ai giudici riferendo di aver trovato l’annuncio di vendita su un sito Internet, di aver contattato i due venditori e di aver pagato il cucciolo in contanti senza avere ricevuta; quasi nessuno dei clienti aveva avuto modo di vedere i genitori del cucciolo che stava per comprare, e al momento di pagare ricevevano la scheda identificativa con i dati del cane e del microchip inserito. Presso gli studi dei veterinari vennero trovate le fatture relative all’inserimento del microchip, fatture che però in molti casi non erano state consegnate ai clienti. “Il cane deve essere tracciabile – aveva concluso il pubblico ministero Carla Longo – e questo significa che nella scheda deve essere correttamente indicato il luogo dove è nato il cucciolo e quindi il nome dell’allevatore e l’atto di cessione al nuovo proprietario. In questo caso invece nelle schede venivano riportati solo i dati dell’acquirente, nascondendo la loro provenienza. I veterinari apponevano la loro firma sotto la scheda di identificazione trascrivendo poi i dati per l’iscrizione all’anagrafe canina, assumendo quindi il ruolo di pubblici ufficiali. Anche le fatture per l’inserimento del microchip dovevano essere intestate agli allevatori, mentre erano intestate ai proprietari che in molti casi non le avevano neanche ricevute, così come risultavano false anche molte delle firme dei proprietari apposte in calce alle schede identificative”. Per l’avvocato Fabrizio Di Vito, difensore dei due veterinari, però i suoi assistiti avevano solo il compito di annotare nelle schede quello che veniva loro dichiarato dagli allevatori, senza alcun ruolo di accertamento e quindi non avevano il ruolo di pubblici ufficiali, così come per il reato di favoreggiamento contestato per aver trovato i libretti sanitari a casa dei due allevatori: “I libretti sanitari non sono il documento del cane, ma solo un posto dove annotare le vaccinazioni fatte; è un promemoria per proprietario e veterinario, non un documento ufficiale”. Difesa condivisa dall’avvocato Enrico Gallo per i due allevatori, che ha sottolineato come nessuna prova fossa stata data del fatto che i flaconi di vaccini trovati a casa dei due allevatori fossero stati iniettati dai suoi assistiti. I giudici hanno accolto la richiesta di assoluzione di S. B. per prescrizione e di assoluzione per tutti gli imputati dall’accusa di associazione a delinquere e dalle altre accuse, mentre hanno condannato M. U., M. F. e P. P. a un anno e otto mesi per il reato di falso.