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Venerdì 22 novembre 2024

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Cuccioli di cane venduti con documenti falsi, quattro a processo

Una coppia e due veterinari nei guai, decine e decine di acquirenti tra il 2015 e il 2018, che avevano trovato on line l’annuncio

Cuneo

La Guida - Cuccioli di cane venduti con documenti falsi, quattro a processo

Erano accusati di vendere cuccioli di cani di varie razze falsificando i documenti di provenienza, e anche di aver esercitato abusivamente la professione di veterinari inoculando personalmente vaccini e microchip ai cuccioli che venivano messi in vendita su un sito Internet. M. U. e F. M., residenti vicino a Cuneo, sono stati rinviati a giudizio insieme ai due veterinari che tra il 2015 e il 2018 avevano avuto con loro rapporti di lavoro.
Ai due professionisti, S. B. e P. P., erano contestati i reati di falso e favoreggiamento, reati che sarebbero consistiti nell’apporre la propria firma in calce alle schede identificative risultate irregolari, oltre ad aver rilasciato alla coppia un certo numero di libretti sanitari in bianco, solo con timbro e firma.
Proprio a causa di questa presunta collaborazione organica, ai quattro era stato contestato il reato di associazione a delinquere. Lunga e complessa l’istruttoria (con varie interruzioni a causa del cambio di composizione del collegio e del Covid che ha reso piuttosto difficile ascoltare le decine di testimoni, tutti acquirenti che negli anni fra il 2015 e il 2018 avevano trovato on line l’annuncio di vendita di cuccioli).
Si trattava di cuccioli di bulldog, cocker, labrador, barboncini, west island white terrier; tutti esemplari di cui gli acquirenti in effetti non avevano mai avuto modo di vedere i genitori e che venivano venduti in contanti senza ricevuta, con una scheda identificativa riportante i dati del cane e del microchip. Quest’ultimo risultava inserito da un veterinario che nella gran parte dei casi i nuovi proprietari non avevano mai visto e che per quell’operazione rilasciava una fattura spesso neanche consegnata agli acquirenti.
“Il cane deve essere tracciabile, questo dice la legge – aveva concluso nella propria arringa il pubblico ministero Carla Longo – e questo significa che nei documenti deve essere riportato correttamente il luogo di nascita, il nome del proprietario dell’allevamento, l’atto di cessione. In questo caso invece nella scheda identificativa venivano riportati solo i dati dell’acquirente, nascondendo completamente la loro vera provenienza. Questa operazione di identificazione veniva fatta dai veterinari che dopo la compilazione delle schede inserivano i dati nell’anagrafe canina, assumendo il ruolo di pubblici ufficiali, per questo le loro condotte sono molto gravi”.
Nel corso dell’istruttoria è inoltre emerso che molte di queste schede identificative dei cuccioli riportavano le firme falsificate degli acquirenti: molti dei testimoni hanno infatti disconosciuto in aula la propria firma posta in calce alla scheda identificativa, sostenendo di non aver mai ricevuto quei documenti. “Le fatture per l’inserimento del microchip avrebbero dovuto essere intestate ai due allevatori, mentre invece erano intestate agli acquirenti che in molti casi non le avevano neanche mai ricevute”.
L’accusa ha fatto cadere il reato di associazione a delinquere riconoscendo che in istruttoria non era mai emersa la collaborazione di tutti e quattro gli imputati nel reato; nei confronti di S. B. l’accusa ha chiesto l’assoluzione per prescrizione del reato, essendo gli ultimi documenti a sua firma risalenti al 2016. Per gli altri tre imputati invece la richiesta di condanna è stata di due anni e sei mesi senza concessione delle attenuanti generiche.
Per l’avvocato Fabrizio Di Vito, difensore dei due veterinari, quelle schede identificative però non erano delle certificazioni, ma solo delle attestazioni riportanti i dati dei cuccioli: “Niente a che vedere con un atto pubblico; i veterinari avevano il solo compito di registrare i dati che venivano loro forniti, non avevano l’obbligo di accertamento su quanto veniva loro detto. Non stavano redigendo un atto pubblico e non avevano il ruolo di pubblici ufficiali così come le ricevute fiscali emesse per l’inserimento del microchip. Le indagini fiscali hanno accertato che non c’era nessuna irregolarità”.
Il difensore ha inoltre sottolineato che a differenza di quanto sostenuto dall’accusa, i libretti sanitari trovati a casa dei due allevatori con il timbro e la firma dei due professionisti non avevano alcun valore ufficiale: “Il libretto sanitario è solo un posto dove appuntare le vaccinazioni effettuate, è un aiuto alla memoria per il proprietario e il veterinario, non è il passaporto dell’animale e per quanto riguarda il reato di favoreggiamento della professione abusiva occorre ricordare che non esiste l’obbligo di vaccinazione per cani e gatti a meno che non debbano essere portati all’estero”. Se non c’è obbligo non può quindi neanche esserci reato di favoreggiamento, tanto più che anche se delle confezioni di vaccini erano state trovate a casa degli allevatori, non era stato provato in alcun modo che i due imputati li avessero somministrati ai cuccioli.
Conclusioni assolutorie condivise dall’avvocato Enrico Gallo per i due allevatori, che ha ribadito il fatto che in nessun modo era stato provato il fatto che i suoi assistiti avessero somministrato i vaccini e che quindi avessero esercitato abusivamente la professione. Il 10 luglio ci saranno le repliche e la sentenza.

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