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Venerdì 22 novembre 2024

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Analisi del voto, Unione europea a rischio di instabilità politica

Poca partecipazione: si scende sotto il 50%, l’Italia nelle ultime consultazioni aveva registrato una curva discendente dal 73% del 2004 al 56% del 2019

Cuneo

La Guida - Analisi del voto, Unione europea a rischio di instabilità politica

I risultati del voto – e del non voto – adesso li conosciamo. I sondaggi li avevano annunciati, ma qualche sorpresa c’è stata, senza tuttavia necessariamente stravolgere la mappa politica del Parlamento europeo.

Purtroppo non è stata una sorpresa la scarsa partecipazione al voto: aveva registrato un balzo di 8 punti nel 2019 rispetto al 2014, superando però di poco la barra del 50%: poco più di un europeo con diritto di voto si era allora recato alle urne. Questa volta il tasso di partecipazione medio nell’UE è stato del 51%, qualche decimale in più del 2019, distribuito a “macchia di leopardo” nei 27 Paesi membri, con distanze significative: dall’89% in Belgio al 21% della Croazia, dalla Francia con il 51,4% alla Germania con il 64,7% fino alla Polonia con il 40%. L’Italia nelle ultime consultazioni aveva registrato una curva discendente, dal 73% del 2004 al 56% del 2019. Queste ultime elezioni raccontano un ulteriore caduta di partecipazione al voto scesa qualche decimale sotto il 50%.

Sarebbe interessante riuscire ad interpretare questo non-voto che non mancherà di impattare sulla futura credibilità del Parlamento e di lasciare ampi margini di manovra ai governi nazionali per imporre le loro decisioni, magari fingendo di non sapere che anch’essi soffrono di un limitato consenso a livello nazionale.

Si può cercare una spiegazione su due piste diverse, tra loro non alternative: la scarsa, quando non scorretta, informazione sulla realtà europea, le sue Istituzioni e le sue politiche, e la caduta di consenso di fronte al progetto di integrazione europea, in difficoltà a rispondere alle attese dei cittadini in un mondo fuori controllo e con il ritorno della guerra ai nostri confini.

Una situazione aperta per qualcuno verso una spinta al cambiamento per più Europa e per altri verso un ritorno alle sovranità nazionali ritenute in grado di rispondere meglio alle sfide di oggi.

Su questa divaricazione si sono collocati i voti: da una parte cercando di rafforzare le forze “europeiste”, largamente maggioritarie nella legislatura appena conclusa, e le forze nazional-populiste, costrette finora nel recinto chiuso di un’opposizione in grande difficoltà ad aggregarsi.

L’ondata di destra, anche estrema – come in Francia, Germania, Austria e Spagna – insieme all’atteso risultato di Fratelli d’Italia, segna un possibile punto di svolta verso un rallentamento del processo di integrazione comunitaria, allontanando il traguardo della costruzione di un’Unione politica. A questa svolta contribuisce anche l’alto tasso di astensione che non rafforza certamente il consenso popolare per il progetto europeo.

Nel gioco del “chi ha vinto, chi ha perso”, la domanda di fondo resta quella di chiedersi se ha vinto l’Unione Europea, già gravemente indebolita dall’alto tasso di astensione e dall’accresciuta fragilità del quadro politico ulteriormente frammentato.

I buoni risultati delle destre di orientamento nazionalista, quelle estreme comprese, non hanno fornito al momento i numeri per ribaltare la maggioranza delle legislature precedenti, vista anche la tenuta dei socialisti, grazie anche al buon risultato del Partito democratico italiano e al ritorno dei socialisti francesi, ma smottamenti non sono da escludere all’interno del Partito popolare europeo. Né bisogna dimenticare il numero importante dei parlamentari “non iscritti” che possono riservare sorprese, come fu – e potrebbe ancora essere – il caso degli ondivaghi Cinque stelle, che nel 2019  contribuirono, non senza sorpresa, all’elezione dell’attuale presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.

Toccherà adesso al Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo entrare nella partita della designazione dei nuovi Vertici delle Istituzioni europee. Si collocano in questo spazio, più che non nel nuovo Parlamento, le variabili politiche destinate ad impattare sul futuro dell’UE. Sono diversamente in crisi quattro dei sei Paesi fondatori, con l’Olanda alla vigilia di un governo con i liberali a sostegno della destra estrema, il Belgio da domenica con l’apertura di una crisi di governo, la Francia chiamata a imminenti elezioni politiche anticipate e la Germania con un Cancelliere indebolito in una coalizione di governo traballante. E’ ancora presto per capire chi “darà le carte”, se ancora l’inceppato motore franco-tedesco, tradizionalmente regista dell’operazione, o se nuovi attori entreranno nel gioco come da una parte, l’Italia e, dall’altra, la Polonia.

In queste condizioni è difficile prevedere che cosa avverrà nel Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo che si riunirà a giugno per proporre la candidatura alla presidenza della Commissione europea, da sottoporre successivamente al voto del nuovo Parlamento, con l’oscillante maggioranza uscita dalle urne.

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