Storicizzare una questione serve a comprenderla. È il compito che si assume questo romanzo intorno alla situazione in quel lembo di terra che gli occidentali hanno definito Medio Oriente. Impresa non facile quella di mediare tra narrazione e un coacervo di informazioni storiche che fanno di quel bacino un banco di prova per la diplomazia e per la coscienza di ogni essere umano. Prova peraltro al momento sempre persa.
Si parte da lontano, dalla morte nel 1227 di Suleyman Shah, precursore del grande impero ottomano. Per lui si costruisce una tomba venerata nei secoli, rispettata anche dagli inglesi. Da quell’episodio con un balzo temporale si arriva a fine Ottocento e di qui in poi si seguono le tracce storiche della regione.
È un procedere non lineare. L’autore riprende sempre i fili della storia partendo da quel primo dopoguerra dove si cela l’origine della situazione sempre esplosiva. Prima Israele poi la Giordania, il Libano, la Siria: si delinea un mosaico fragilissimo cresciuto per sovrapposizioni politiche, con le fondamenta così deboli da incrinarsi ripetutamente. Con un pizzico di ironia sintetizza questa situazione l’ingegnere Sadiq che alla domanda se è palestinese, non può che rispondere: “ Non lo so. Sono nato in un villaggio che era stato prima parte dell’impero ottomano, poi nel 1920 divenne territorio libanese, poi per una strana situazione la linea di confine venne spostata e divenne palestinese. Nel 1948 con la costituzione dello stato di Israele anche il mio villaggio venne evacuato e gli abitanti passati per le armi”.
In questo scenario si muovono due personaggi di fantasia: Ilan, giovane soldato israeliano, e Sadiq, coetaneo palestinese. Crescono insieme, finché Sadiq non deve andarsene perché Israele occupa le sue terre. Le strade tornano a incrociarsi, ma l’attenzione dell’autore si concentra sul mosaico in cui vivono, sugli errori, l’impotenza o l’inettitudine della diplomazia.
Uno scenario dove regna una logica di guerra e si riconosce l’assurdo di fronte a cui l’unica cosa che si può fare è “restare umani”, dice il soldato israeliano ormai abituato alla realtà bellica. Non sa spiegare come tradurre nei fatti questo pensiero. Eppure anche Ilan capisce che lì c’è il nucleo di un modo diverso di vivere.
È una pausa nel racconto. Poi la storia riprende le fila e snocciola errori, ingordigia, soperchierie ai danni di interi popoli. Sembra un filare di fallimenti che anche un impegno costruttivo per un popolo come la diga di Tabqa si traduce in disastro per gli altri a valle privati di acqua, cioè in ulteriori motivi di tensione. Una prospettiva che giustifica una strisciante malinconica constatazione di impotenza anche di fronte alle rovine di Aleppo.
La tomba di Suleyman e altre storie del Levante
di Adalberto Invernizzi
Editrice Besa muci
euro 16