Il 45% delle prestazioni sanitarie in Piemonte vengono fatte a pagamento nella sanità privata, per un valore di quasi tre miliardi di euro. Numeri che indicano come la demolizione del Servizio sanitario pubblico sia già in larga parte cosa fatta.
Numeri che tuttavia non scalfiscono l’ignavia di amministratori pubblici, partiti, sindaci, parlamentari, sindacati, delle tante associazioni capaci di mobilitare migliaia di persone per impedire l’abbattimento di qualche albero ma silenti di fronte al progressivo e costante abbattimento dei servizi alla salute.
C’è una schizofrenia inspiegabile tra la furia social dei cittadini e la pronta risposta delle istituzioni quando le strade innevate non vengono liberate entro poche ore e la contestuale rassegnazione di entrambi, cittadini e istituzioni, di fronte a migliaia di persone che per un esame strumentale devono attendere mesi o anni, essere spediti a centinaia di km di distanza dalle strutture sanitarie pubbliche del proprio territorio o rivolgersi a pagamento alla struttura privata sempre pronta e disponibile.
Com’è che ci siamo assuefatti a questo dissolversi della sanità pubblica? Com’è che accettiamo senza fiatare di pagare due volte per lo stesso servizio: la prima con le tasse allo Stato, la seconda alla sanità privata (direttamente o attraverso la sottoscrizione di un’assicurazione ad hoc) per l’esame o l’intervento di cui abbiamo necessità? Com’è che non ne chiediamo conto a chi abbiamo eletto a governarci, nei nostri Comuni come alla Regione, in Parlamento?
Lo smantellamento procede senza intoppi. Come se non esistesse la possibilità di fermarlo e invertire la rotta. Come se non fosse possibile cambiare ciò che non funziona. Nessuna forza politica o sociale, al di là di un fiume di parole, mostra la volontà di intervenire con iniziative concrete. Non esiste nemmeno un’analisi puntuale e indipendente (non fatta da organismi a nomina politica, per intenderci) su che cosa e perché nel concreto non funziona, né su chi sono i responsabili delle cose che non funzionano.
La prima da chiamare in causa è la politica. È la Regione che gestisce tutta la filiera della sanità, nomina e controlla i dirigenti di Asl e ospedali, attraverso i quali passano tutte le scelte delle politiche sanitarie territoriali. È anche la Regione che controlla il funzionamento delle strutture e dei dirigenti che lei stessa ha nominato. Il controllore controlla se stesso: una anomalia assoluta. È ancora la Regione che prima concede il visto e poi è chiamata a controllare le strutture della sanità privata. L’assurda concorrenza tra Asl e ospedali, o tra Asl e Asl come accade in provincia di Cuneo, per strapparsi medici, infermieri e reparti, è un “gioco” condotto da una dirigenza nominata e controllata dalla Regione. Se in questi anni sono fiorite ovunque le strutture private che offrono a pagamento e in tempi rapidi quei servizi che il pubblico non fornisce più, è perché hanno avuto il via libera dalla stessa Regione.
La partita della sanità sia pubblica che privata passa sempre dalla Regione, ed è interamente nelle mani dei suoi amministratori pro tempore (qui non è questione di destra o sinistra). Tutto questo accade perché così prevedono o permettono le leggi dello Stato. Soltanto la modifica di quelle leggi potrà ricreare le condizioni per ridare priorità, centralità e corretto funzionamento al sistema sanitario nazionale. Un passaggio che dovrebbe sottrarre alla politica la nomina dei dirigenti della Sanità per ridarla ai cittadini, tramite rappresentanze non (o non solo) appartenenti al mondo politico. Ma se a mobilitarsi su questa prospettiva non saranno i cittadini e, in parlamento, gli eletti che li rappresentano, sarà impossibile invertire la rotta.
C’è poi un nodo da sciogliere che riguarda i rapporti tra la sanità pubblica e quella privata. Non la valenza e il servizio fornito dalle strutture private, bensì il personale medico e non solo che si muove tra il pubblico e il privato. Chi non trova posto in tempi accettabili per un intervento chirurgico o per specifici esami strumentali nella sanità pubblica, ricorre ad una struttura privata a pagamento. Nella struttura privata spesso il cittadino trova lo stesso medico che avrebbe trovato per lo stesso l’intervento nel pubblico, ma un anno o due dopo. È come se al dipendente di un’azienda fosse consentito di lavorare contemporaneamente per l’azienda concorrente. Proprio quella che fa di tutto per sottrarle i clienti. Al di là dell’imbarazzo etico e della diversa valenza che si può attribuire al principio cardine di “fedeltà aziendale” contrattualmente richiesta ai lavoratori di qualsiasi settore, appare di tutta evidenza come questo “doppio servizio” renda quanto meno difficoltoso mantenere i giusti confini tra pubblico e privato. Una regolamentazione più rigorosa, se non la drastica imposizione dell’alternativa secca tra pubblico e privato, diventa sempre più indispensabile.
Su questi due questioni centrali di una vera riforma, non si vedono iniziative o mobilitazioni. La drammaticità della situazione contrasta con l’assenza di proposte concrete. Si susseguono soltanto gli appelli a mettere più risorse nella sanità. Il che è certo necessario ma può diventare controproducente se non si modifica alla radice la gestione del Servizio sanitario nazionale, perché è come aggiungere carburante in una macchina con il serbatoio bucato.