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Domenica 22 dicembre 2024

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“Le Iene” a processo a Cuneo per un’accusa di diffamazione

Nel servizio dedicato a un'invenzione e a brevetti la cui idea era contesa tra un artigiano di Treviso e un tecnico ortopedico di Savigliano

La Guida - “Le Iene” a processo a Cuneo per un’accusa di diffamazione

Savigliano – Con le richieste dell’accusa e delle difese, è arrivato a conclusione il pro-cesso per diffamazione a carico di Giulio Golia, personaggio televisivo della trasmissione “Le Iene”. Sotto accusa era il servizio andato in onda nell’ottobre 2018 in cui si era stata presa in esame la segnalazione proveniente da F. M., artigiano di Treviso che si era sentito defraudato di una sua invenzione da S. G., tecnico ortopedico di Savigliano, con cui aveva collaborato per qualche tempo alla progettazione di un innovativo sistema di protesi. Nel servizio era stata raccontata la storia di F. M., artigiano di Treviso che in seguito a una malattia aveva subito l’amputazione di en-trambi gli arti inferiori, ma che grazie alla sua genialità era riuscito a ideare un innovativo sistema di protesi basato sulla pressione. Alla fiera Exposanità 2010 aveva conosciuto il tecnico ortopedico S. G. che si dimostrò molto interessato all’idea e tra i due nacque una collaborazione che durò per qualche tempo. Poi verso la fine del 2011 il rapporto tra i due si interruppe perché l’ortopedico non era soddisfatto dei risultati ottenuti né della modalità di lavoro del collega. Agli inizi del 2012 però S. G. brevettò un sistema che secondo F. M. era molto simile al suo: sentendosi derubato dell’idea si rivolse alla trasmissione “Le Iene” che su questa storia realizzarono un servizio condotto proprio da Giulio Golia e durante il quale, nella parte registrata in studio, si diceva che “da una parte c’è il classico inventore e dall’altra il furbetto che ha fiutato il business e si è intascato l’idea”.
A conclusione dell’istruttoria il pubblico ministero Gianluigi Datta aveva chiesto la condanna al pagamento di 2.500 euro per Giulio Golia, ritenuto responsabile del reato in quanto “essendo un freelance avrebbe potuto scegliere di non realizzare un servizio il cui contenuto diffamatorio era evidente già nel titolo”. Secondo il pubblico ministero la ricerca dello scoop era evidente e aveva travalicato i limiti del diritto di informazione.
Una tesi condivisa dall’avvocato Carlo Blengino per la parte civile S. G. che ha sottolineato la mancanza di interesse pubblico in un fatto risalente a sette anni prima, in cui i fatti sono stati sottoposti a una narrazione arta-tamente sfocata togliendo tutta una serie di informazioni che avrebbero posto la vicenda sotto un’altra luce. La realtà, secondo la parte civile, è che nessuno dei due era in realtà riuscito a realizzare un progetto standardizzabile e quindi riproducibile, ma il risultato del servizio sarebbe stato quello di dare in pasto all’indignazione pubblica un poveretto.
Dal canto suo l’avvocato di difesa Stefano Toniolo ha sottolineato come in 26 anni la trasmissione non abbia mai subito una condanna per diffamazione, evidenziando che S. G. si prestò volontariamente e consapevolmente all’intervista, ripercorrendo poi le tappe della collaborazione tra i due protagonisti della vicenda, sottolineando che il brevetto di S. G. sia stato presentato a pochi mesi dopo la fine della collaborazione con F. M., il quale si sarebbe lecitamente sentito defraudato dell’idea.
Di verità putativa ha parlato infine l’avvocato Giulia Mangialardi, responsabile civile per Rti, la quale ha ribadito che il servizio rispettava tutti i criteri di continenza, verità, essenzialità; soprattutto riguardo al criterio di verità che per le inchieste giornalistiche va interpretato in senso più esteso e flessibile.
Il processo è stato rinviato all’8 maggio per le repliche e la sentenza (foto da profilo Facebook).

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