Cuneo – Aveva percepito per quasi un anno il reddito di cittadinanza senza averne diritto, perché sottoposto a misura cautelare da parte dell’autorità giudiziaria, intascando così circa 6.800 euro che in realtà non gli spettavano. Il cuneese M. G. è stato così rinviato a giudizio e processato davanti al tribunale di Cuneo che lo ha condannato a un anno e quattro mesi di reclusione. Dopo l’entrata in vigore della legge, l’uomo aveva fatto domanda nel marzo 2019 e aveva iniziato a percepire l’assegno. Nel frattempo però il governo aveva modificato i requisiti per l’accoglimento delle domande, escludendo tutti coloro che erano sottoposti a misure cautelari. E questo era il caso di M. G. che ad agosto 2019 aveva ricevuto un ordine di allontanamento dalla città di Cuneo in seguito a una vicenda giudiziaria con la sua ex compagna. Anche a lui l’Inps aveva invito un messaggio telefonico invitandolo a presentare un’integrazione della sua domanda, specificando proprio questo aspetto. Il messaggio inviato a tutti i percettori dell’assegno rinviava a un link cui poter accedere autonomamente per integrare la domanda già presentata. “La domanda originaria era stata presentata tramite Poste Italiane – ha riferito il militare della Guardia di Finanza che aveva svolto le indagini – e questo risulta dalla banca dati dell’Inps, mentre per l’integrazione presentata il 14 ottobre non risultano intermediari e deve essere stata compilata autonomamente accedendo al link con le proprie credenziali. L’Inps gli aveva inviato un sms il 2 ottobre perché lui stesso nella domanda originaria aveva indicato come contatto il suo numero di telefono. La sua integrazione era del 14 ottobre”. Essendo stata inoltrata tramite Internet, la domanda non era firmata digitalmente ed è questo elemento cui ha fatto riferimento la difesa dell’uomo nel chiederne l’assoluzione in quanto quel modulo inviato per via telematica poteva essere stato compilato anche da qualcun altro a insaputa dell’imputato. Per l’accusa invece il fatto che il messaggio dell’Inps fosse arrivato sul suo telefono e che per effettuare l’accesso al link occorrevano il codice fiscale e il codice alfanumerico assegnato dall’ente, erano prova che fosse stato proprio l’imputato a presentare quella integrazione, consapevole della falsità delle proprie dichiarazioni. Il giudice ha accolto questa ricostruzione e ha condannato l’uomo alla pena di un anno e quattro mesi oltre al pagamento delle spese processuali.