Cosa ha da dire un antropologo sulla costruzione di una casa? Qualcosa di letteralmente fondante, che investe cioè il senso stesso del costruire, risponde l’autore. Un punto di vista, ammette, certo non di immediata rielaborazione in un mondo in cui l’abitare si definisce per lo più come un dentro contrapposto al fuori. Andrea Staid mette in gioco invece la tecnica del costruire, la socialità sottesa all’idea di abitazione, l’investimento in sogni e desideri. Si chiama in causa non solo l’architettura, ma anche la sociologia, la filosofia dell’esistere: “Concentrarsi sulle nostre case significa come diamo forma alla nostra umanità più intima”.
Lo sguardo dell’antropologo interpella il modo di costruire nel mondo occidentale con i problemi di inquinamento, depauperamento del paesaggio, sovraffollamento, stress. Il metodo è quello di rifarsi alle popolazioni indigene come modello di interazione tra uomo territorio, comunità e spazio geografico. Non si tratta di cadere nel mito dell’esotismo felice e perfetto in ogni sua manifestazione, ma di ravvisarvi insegnamenti da importare e confrontare con le nostre tecniche. Il primo concetto su cui riflettere è il perimetro dell’abitazione. Cosa ovvia, per certi versi, ma antropologicamente questi muri sottolineano le paure che le società moderne industrializzate si portano dentro. La casa è sinonimo anzitutto di sicurezza da minacce che possono venire dall’esterno, che è l’ignoto, potenzialmente pericoloso. “Ci sentiamo sicuri soltanto rinchiusi, forse perché non ci riconosciamo nella comunità in cui viviamo”.
La provocazione viene dalle comunità dove l’abitazione è un fatto sociale, a cominciare dalla costruzione. Intanto si tratta di un’autocostruzione, in cui l’individuo si impegna in termini di tempo e lavoro per erigere la propria abitazione. Inoltre è l’intera comunità del villaggio che partecipa a questa attività. Un impegno comunitario che porta con sé l’idea di condivisione, di dono, di partecipazione.
Dall’idea di ”homo faber” all’“homo comfort”: all’autocostruzione, che significa progettazione, occupazione, collaborazione, nel nostro mondo si è sostituito il concetto di delega creando una frattura tra chi costruisce e chi fruisce della costruzione. Questi se ne appropria come un oggetto estraneo attraverso il denaro e deve avviare un processo di identificazione con la casa che passa per la scelta dell’arredamento, dei tendaggi, dei quadri, cioè con nuove spese su oggetti preconfezionati.
Nostalgia della manualità e della progettazione che assume presto nel discorso dell’autore una valenza politica. L’autocostruzione è un riflesso del più comprensivo autogoverno, dell’esercizio civico della scelta. Nel dopo terremoto l’autore ravvisa un esempio di quanto deleteria sia la prospettiva della delega, questa volta allo Stato. Nella burocratizzazione del costruire si vanifica lo sforzo del singolo, mentre si sostituisce l’iniziativa individuale con l’efficienza, tutta da dimostrare, degli aiuti statali.
La casa vivente
di Andrea Staid
Add
16 euro