Saluzzo – Non si può venire in un’aula di tribunale e chiedere una condanna per un reato così grave come quello di sfruttamento della manodopera di lavoratori migranti facendo leva sul loro stato di bisogno, senza riscontri puntuali per ogni singolo lavoratore: riscontri che secondo gli avvocati Antonio Tripodi ed Enrico Collidà, difensori dei tre titolari dell’azienda di produzione di frutta di Lagnasco (D. G., G. G. e M. B.), semplicemente non ci sono. “L’approfittamento deve essere provato per ogni singolo caso – ha detto l’avvocato Antonio Tripodi – e non si può arrivare in aula con accuse generiche e improprie generalizzazioni, demandando alla difesa l’onere della prova contraria”.
L’intera arringa difensiva dell’ultima udienza del processo a Momo (dal soprannome di T. M., lavoratore del Burkina Faso, accusato insieme agli altri tre imputati titolari della ditta di raccolta polli di Barge, di aver sfruttato lo stato di bisogno dei lavoratori migranti) si è articolata proprio sul ridimensionamento dell’intero impianto accusatorio di un processo inizialmente “molto spettacolarizzato”, come lo ha definito l’avvocato Collidà, ma che alla prova dell’aula di tribunale ha dimostrato tutti i suoi limiti.
Ecco allora che in questa ricostruzione i proprietari dell’azienda di frutta non sapevano che Momo chiedeva soldi agli altri lavoratori, perché erano stati loro stessi a testimoniarlo in aula, e se detraevano soldi dalla busta paga erano semplicemente delle specie di cauzioni per eventuali danni agli attrezzi forniti o per evitare che nella cascina messa a disposizione andassero a usare le docce o mangiare anche altre persone non assunte dall’azienda. Ci sono state violazioni in materia di evasione ed elusione dei contributi perché parte dello stipendio era in nero, ma la paga si aggirava intorno ai 5-6 euro, in conformità con il contratto nazionale. E non era neanche vero che si ricorreva in via esclusiva a Momo per il reclutamento dei lavoratori; c’era lui come anche altri che segnalavano ragazzi in grado di soddisfare il bisogno di un’azienda che nel settore agricolo deve muoversi con una certa rapidità, considerate la tante variabili meteorologiche.
“In nessuna testimonianza abbiamo sentito puntare il dito contro D. G. – ha sottolineato l’avvocato Tripodi -, nessuna minaccia di perdere il lavoro o di dover accettare situazioni degradanti, tanto che gli stessi datori di lavoro nell’organizzare le squadre giornaliere dovevano fare continuamente i conti con lavoratori che se ne erano andati anche in altri paesi e dovevano essere sostituiti”.
Stesso discorso per la cascina dove alloggiavano, “definita quasi come la casa degli orrori – ha detto l’avvocato Collidà – ma che aveva stanze con letti a castello, bagni con docce e la cucina con i piatti da lavare, come le case colonia dove passavo le vacanze io. E tutto l’orrore era in realtà un po’ di ruggine sui termosifoni e qualche muro un po’ scrostato, certo non insalubre né degradato”.
“La verità innegabile – ha concluso l’avvocato Collidà – è che in questo processo per sfruttamento del lavoro, l’unico reato pacificamente riscontrato e ammesso è l’evasione dei contributi, e so che in quel settore tutti agiscono così, sbagliato ma è così, solo che qui ora le conseguenze possono essere drammatiche”.
L’ultima udienza fissata per le repliche e la sentenza è l’11 aprile.