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Lunedì 25 novembre 2024

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Caso caporalato a Saluzzo, per la difesa “non c’è sfruttamento solo incontro tra domanda e offerta

Il processo è stato rinviato al 7 marzo per le ultime arringhe difensive e per la sentenza

La Guida - Caso caporalato a Saluzzo, per la difesa “non c’è sfruttamento solo incontro tra domanda e offerta

Saluzzo – Al processo sul caporalato nel saluazzese, dopo le richieste di condanna avanzate dall’accusa, la parola è passata alle difese.
Il primo a ripercorrere le tappe dell’istruttoria e delle prove acquisite è stato l’avvocato Guido Savio difensore di T.M., soprannominato Momo, il lavoratore proveniente dal Burkina Faso che grazie alla sua conoscenza dell’italiano era diventato non solo il mediatore tra i datori di lavoro e i ragazzi in cerca di occupazione, ma un punto di riferimento anche nel reclutamento della manodopera. Un ruolo di mediatore che  secondo l’accusa aveva portato indubbi vantaggi ad entrambe le parti, ai datori di lavoro, i titolari delle due aziende di Lagnasco a Barge, che potevano fare affidamento su Momo per la soluzione di ogni problema relativo alla gestione dei ragazzi che venivano impiegati, e a Momo stesso che sfruttava questo ruolo riconosciuto e rispettato, pretendendo del denaro dai ragazzi e tenendoli sotto schiaffo con la minaccia di perdere il posto di lavoro.
Se la ricostruzione dell’accusa si era fondata sulla riconoscibilità degli indici di sfruttamento (violazioni in materia retributiva, di orario di lavoro, di norme di sicurezza e di sottoposizione a condizioni di lavoro degradanti) nelle condotte degli imputati che in questo modo approfittavano dello stato di bisogno dei lavoratori immigrati, la difesa ha messo in discussione il concetto stesso di stato di bisogno di questi giovani; e se non c’è lo stato di bisogno, allora non ci può essere neanche lo sfruttamento.  Così come Momo si era spostato dalla Calabria al Piemonte in cerca di un lavoro migliore, così avrebbero potuto fare anche gli altri ragazzi, consapevoli anche del fatto che secondo la legislazione precedente al 2018, la perdita del lavoro non avrebbe implicato la perdita del permesso di soggiorno. Secondo la difesa anche gli altri argomenti portati dall’accusa non sarebbero stati sufficienti a provare che i ragazzi fossero preda di un impellente  stato di bisogno tale da limitarne la capacità di scelta.
“Non è sufficiente venire in aula a dire che Momo era il reclutatore perché in realtà si trattava di incontro tra domanda e offerta, – ha detto l’avvocato Savio -, e lui non doveva fare alcuna opera di convincimento per farli lavorare perché in realtà erano loro che chiamavano lui. Anche il tema delle minacce è molto discutibile se è vero che una delle parti offese del processo che aveva lamentato di dover accettare il lavoro notturno della raccolta polli altrimenti avrebbe perso anche l’altro lavoro nel frutteto, in realtà è ancora oggi impiegato nell’azienda di Barge”.
Momo era un lavoratore come gli altri, prendeva la stessa paga, viveva nella stessa cascina, aveva gli stessi orari di lavoro, se c’è stato sfruttamento allora era vittima anche lui, la cui unica colpa sarebbe stata di conoscere la lingua e per questo essere utilizzato dai datori di lavoro.
“Momo è l’unico che ha sofferto la carcerazione preventiva, l’unico ad aver perso tutto in questa vicenda” ha concluso la difesa. Per lui, la cui richiesta di condanna era stata di 6 anni, la difesa  ha chiesto l’assoluzione e in subordine il minimo della pena con il riconoscimento dei benefici di legge.
La parola è poi passata al collegio difensivo dei titolari dell’azienda di raccolta polli di Barge, A.D., C.M. e P.A. Per essi hanno parlato l’avvocato Chiaffredo Peirone, Chiara Siccardi e Manuela Rosso. Anche secondo  questa difesa, la ricostruzione da parte dell’accusa era stata ineccepibile ma non efficace a dimostrare che quegli elementi indicativi dello sfruttamento fossero davvero stati messi in atto dai datori di lavoro.
“La raccolta dei polli –  ha detto l’avvocato Peirone –  va obbligatoriamente   svolta di notte e nella cooperativa ci sono 54 soci lavoratori e 18 dipendenti con contratti regolari, ma le squadre vanno composte alla bisogna, tenendo conto del lavoro da svolgere e della disponibilità della manodopera perché questi ragazzi molto spesso partono senza dare preavvisi, e può essere capitato qualche caso marginale non regolarizzato. In una ditta che paga ogni anno più di 2 milioni di euro di stipendi, questa quota di irregolarità è residuale e non prova lo sfruttamento dello stato di bisogno. È accaduto, ma non era certo questo il ‘sistema’ di cui parla l’accusa”.
“Come si può parlare di sfruttamento dello stato di bisogno di un lavoratore  – ha sottolineato l’avvocato Siccardi – che parla e capisce l’italiano e che è tutt’ora dipendente a tempo indeterminato della cooperativa?  Il suo caso dimostra  che questa persona è in grado di poter disporre dei proprio diritti tanto da scegliere di continuare a lavorare per loro”.
Per tutti  i tre gli imputati, per i quali erano state chieste condanne dai 3 ai 5 anni di reclusione, la difesa ha quindi chiesto l’assoluzione. Il processo è stato rinviato al 7 marzo per le ultime arringhe difensive e per la sentenza.

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