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Domenica 22 dicembre 2024

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Caporalato nel saluzzese, chieste condanne per tutti gli imputati

Il processo contro Momo e le imprese con cui collaborava, una di produzione frutta a Lagnasco e l'altra di allevamento polli a Barge

La Guida - Caporalato nel saluzzese, chieste condanne per tutti gli imputati

Saluzzo – Sta per giungere a conclusione il primo processo della provincia di Cuneo sul caporalato, il processo “Momo”, dal soprannome del lavoratore del Burkina Faso, che secondo l’accusa operava come caporale per conto di due famiglie di produttori di frutta a Lagnasco e allevamento polli a Barge, reclutando manodopera tra gli immigrati provenienti dall’Africa e mettendo quei ragazzi nella condizione di essere sfruttati dagli imprenditori che facevano leva sul loro stato di bisogno
“Un processo molto sentito – ha dichiarato in apertura di requisitoria il pm Carla Longo che ha condotto le indagini – perché affronta il tema dello sfruttamento della manodopera, arrivato a intaccare un tessuto economico sostanzialmente sano con aziende che sono punte di eccellenza”.
Quello emerso dalle indagini è un tipo di caporalato ‘grigio’, “dove – ha proseguito la Longo – sotto un’apparenza di legalità si nasconde la natura reale delle cose, uno sfruttamento che non si manifesta con forme violente ma che si basava sulla fragilità e sfruttabilità di lavoratori”, uno stato di bisogno effettivo di cui si sono approfittati Momo e i titolari delle due aziende che, “utilizzando la mediazione dell’unico straniero che parlava italiano, avrebbero tratto indubbi vantaggi economici senza neanche il bisogno di sporcarsi direttamente le mani”.
Il sistema dello sfruttamento, scoperto nell’estate 2018 in seguito alla denuncia di uno dei lavoratori stranieri, si basava su una retribuzione più bassa di quella del contratto nazionale, su buste paga in cui venivano sistematicamente indicati numeri di ore lavorative inferiori a quelle effettive, sulla violazione delle norme di sicurezza sul luogo di lavoro, su condizioni alloggiative degradate.
Insieme a Momo sono stati denunciati i titolari delle due aziende (D. G., G. G. e B. M. dell’azienda di produzione di frutta e A. D., C. M. e P. A. della ditta di allevamento polli). L’indagine si è avvalsa di ispezioni sui luoghi di lavoro, intercettazioni telefoniche e sequestri di documenti che proverebbe secondo l’accusa il quadro di sfruttamento operato dai datori di lavoro, messo in atto grazie all’operato di Momo. Indagini che sono state corroborate dalle testimonianze dei lavoratori, che hanno raccontato di ricevere parte dello stipendio in nero, una retribuzione su cui nessuno poteva operare controlli e da cui venivano sistematicamente detratte delle somme di cui i lavoratori non capivano le ragioni e di cui però non potevano lamentarsi pena la perdita del lavoro. Per mettere a tacere le proteste c’era Momo, il reclutatore di manodopera, quello a cui bisognava pagare un tanto al mese per i suoi servizi, quello da non contrariare se si voleva lavorare. Qualcuno aveva provato semplicemente a chiedere il perché delle trattenute e rimase senza lavorare per alcune settimane, “bisognava pagare – aveva riferito in aula un ragazzo – per non creare un clima teso e per poter continuare a lavorare”. E poi il doppio lavoro, la mattina nei frutteti e la notte nella ditta di polli, in violazione del riposo obbligatorio, un doppio lavoro cui non ci si poteva sottrarre per non far arrabbiare Momo: “Nelle intercettazioni parlano dei lavoratori come fossero numeri – ha detto la Longo – operai da impiegare in nero per il lavoro che c’era da fare e poi basta. Abbiamo la dichiarazione di un operaio che non sapeva neanche chi era il proprietario dell’azienda di polli, perché il suo referente era Momo”.
“Solo ai lavoratori africani venivano applicate queste condizioni di lavoro – ha sottolineato l’avvocato Giacomo Mattalia, costituito parte civile per l’associazione Lavoro e sicurezza – perché la loro sfruttabilità era data proprio dal loro stato di bisogno impellente, perché la loro ignoranza della lingua era l’arma in mano al datore di lavoro. Perché si ritiene che un uomo che è arrivato in Italia a bordo di un barcone può certamente accontentarsi di vivere in una cascina con un materasso buttato a terra, dividendo il bagno con altre 50 persone, dovendosi comprare la stufetta perché il riscaldamento è rotto”.
“Utilizzare canali informali per reclutare lavoratori consentiva di creare una bolla di marginalizzazione dove poter esercitare il proprio potere – ha ricordato l’avvocato Valentina Sandroni, costituita parte civile per la Cgil, la Flai e due lavoratori -, come quando si chiedeva ai lavoratori di pagarsi i 304 euro della quota contributiva per raggiungere il monte ore necessario a ottenere il permesso di soggiorno a lungo termine. E non c’era bisogno di violenza, perché il sistema era talmente pervasivo che non aveva senso discutere, questi ragazzi erano talmente fragili che di loro non fregava niente a nessuno”.
Al termine della requisitoria sono quindi arrivate le richieste di condanna del sostituto procuratore Carla Longo per tutti gli imputati: sei anni e otto mesi per il reclutatore T. M. con un risarcimento di 23.000 euro, cinque anni e 20.000 euro per D. G. e M. B., tre anni e quattro mesi e 12.000 euro, i titolari dell’azienda di Lagnasco; cinque anni e 11.000 euro per A. D. e M. C., tre anni e quattro mesi per A. P. della ditta di polli di Barge. A queste richieste si sono aggiunte quelle delle parti civili con le provvisionali risarcitorie di 50.000 euro per ognuno dei due lavoratori; 15.000 euro per le due organizzazione sindacali Cgil e Flai e 10.000 euro per l’associazione Lavoro e sicurezza. Il 21 febbraio l’udienza riprenderà con le arringhe delle difese.

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